Baley rispose, distratto: «Gli ho fatto una predica. Il vangelo secondo san Fastolfe».

«Non ti capisco, Elijah.»

Baley sospirò e disse: «Ho cercato di spiegargli che la Terra può adottare i robot e spedire il surplus di popolazione su altri mondi. Ho cercato di togliergli dalla testa un po’ di quel ciarpame medievalista. Dio sa perché, non sono il tipo del missionario, comunque è quello che è successo».

«Vedo. Be’, questo spiega diverse cose, e forse è la causa del cambiamento. Dimmi, Elijah, che cosa gli hai detto sui robot?»

«Lo vuoi proprio sapere? Gli ho detto che sono soltanto macchine. Questo è il vangelo secondo Gerrigel. Ci sono parecchi vangeli, come vedi.»

«Gli hai detto che si può colpire un robot senza che questi restituisca il colpo? Come ogni altro oggetto meccanico?»

«Tranne una punching-ball… Sì, credo di sì. Che cosa te l’ha fatto capire?» Baley dette un’occhiata interrogativa al robot.

«Corrisponde ai cambiamenti cerebrali» rispose R. Daneel. «E spiega perché ha tentato di darmi uno schiaffo appena usciti dalla fabbrica. Evidentemente ha riflettuto su quello che hai detto e ha voluto mettere alla prova le tue affermazioni. Questo ha scaricato i suoi impulsi aggressivi e gli ha dato il piacere di vedermi in quella che sembrava una posizione d’inferiorità. Ho dedotto che tali motivazioni responsabili della variazioni delta nel…»

Fece una lunga pausa, poi disse: «Sì, è piuttosto interessante. Credo di poter disporre, finalmente, di un corpo coerente d’informazioni».

Si avvicinavano al quartier generale. Baley chiese: «Che ora è?».

Poi pensò, irritato: potrei guardare l’orologio e perdere meno tempo…

Ma sapeva perché l’aveva chiesto. Era un motivo non molto diverso da quello che aveva spinto Clousarr a schiaffeggiare il robot: dargli un ordine banale cui l’altro era costretto a obbedire sottolineava la "roboticità" di Daneel e l’umanità di Baley.

Baley pensò: "Siamo tutti fratelli. Sotto la pelle, sopra, dappertutto. Giosafatte!".

«Le venti e dieci» rispose R. Daneel.

Uscirono dalla motospirale e Baley impiegò qualche secondo per abituarsi alla condizione di nonmovimento dopo lunghi minuti di ascesa regolare.

Disse: «Non ho nemmeno mangiato. Maledizione a questo lavoro!».

Baley vide il questore Enderby attraverso la porta aperta dell’ufficio. La sala comune era deserta, come se qualcuno l’avesse ripulita dell’ordinaria presenza umana, e la voce di Enderby echeggiava fin negli angoli più lontani. La faccia del questore era nuda e debole, perché si era tolto gli occhiali e li teneva in una mano, mentre con l’altra tamponava il sudore con un misero fazzoletto di carta.

Vide Baley che si avvicinava alla porta e la voce passò a un tono petulante.

«Bontà divina, Baley, ma dove ti eri cacciato?»

Baley non fece caso alla rampogna e disse: «Che succede, qui? Dove sono i ragazzi del turno di notte?». Poi si accorse che nell’ufficio del questore c’era un’altra persona.

«Dottor Gerrigel!»

Il robotista dai capelli grigi annuì brevemente, restituendo l’involontario saluto. «Sono lieto di incontrarla di nuovo, signor Baley.»

Il questore si aggiustò gli occhiali e fissò l’agente. «I ragazzi del turno di notte sono al piano di sotto, dove li stanno interrogando. Avranno un bel po’ di testimonianze da firmare. Ma io sono diventato pazzo nel tentativo di trovarti! Sembrava impossibile, eppure proprio tu non c’eri.»

«Ah, io non c’ero, è così?»

«Se è per questo sembra che non ci fosse nessuno. Al momento del fattaccio, voglio dire. Eppure è stato qualcuno del Dipartimento e dovrà pagarla salata. Che casino infernale! Che sporco, maledetto casino!»

Enderby alzò le mani al cielo, in una specie di estrema protesta, e nel far questo i suoi occhi caddero su R. Daneel.

Baley pensò, ironico: "È la prima volta che lo guarda in faccia. Imprimitelo bene in mente, Julius!".

A voce più bassa il questore disse: «Dovrà firmare una dichiarazione anche lui. E anch’io. Io!».

«Che cosa le fa pensare che R. Sammy non si sia fatto saltare le guarnizioni da solo? Insomma, perché pensiamo a un atto doloso?» chiese Baley.

«Lo domandi a lui» disse il questore, indicando Gerrigel. Poi sedette pesantemente.

Il dottor Gerrigel si schiarì la gola. «Non so io stesso come sia potuto succedere, signor Baley. Ma vedo dalla sua espressione che è sorpreso di trovarmi qui.»

«Un poco» ammise Baley.

«Vede, non avevo fretta di tornare a Washington e le mie visite a New York sono abbastanza rare da indurmi a girare un po’ Ma c’è dell’altro: dopo aver visto lo stupendo esemplare di robot che lei mi ha mostrato, mi sono detto che sarebbe stato criminale tornare a casa senza aver tentato di studiarlo. Vedo, tra parentesi, che è di nuovo con lei.» Diede un’avida occhiata in direzione di Daneel.

Baley s’irrigidì. «Per il momento è impossibile, dottore.»

Il robotista fece la faccia scura. «Questo lo capisco. Ma in seguito…?»

La lunga faccia di Baley rimase impassibile, inespressiva.

Il dottor Gerrigel continuò: «Così l’ho chiamata, ma lei non c’era e nessuno sapeva come rintracciarla. Ho parlato con il questore e lui mi ha detto di tornare alla centrale e aspettarla qui».

Enderby intervenne rapidamente: «Ho pensato che fosse importante. Sapevo che eri stato tu a cercare il dottor Gerrigel all’inizio…».

Baley annuì: «Grazie».

Gerrigel disse: «Sfortunatamente la mia bacchetta magica era scarica, o forse la mia ansia mi ha fatto giudicare male la temperatura. Fatto sta che ho preso la strada sbagliata e mi sono trovato in una piccola stanza…».

Il questore interruppe di nuovo: «Uno dei depositi del materiale fotografico, Lije».

«Infatti» convenne il dottor Gerrigel. «E a terra c’era la sagoma accasciata di quello che evidentemente era un robot. Dopo un breve esame ho potuto stabilire che era stato irreversibilmente disattivato. Morto, possiamo dire. Non è stato difficile trovare la causa della disattivazione.»

«E qual era?» chiese Baley.

«Nel pugno destro dell’automa, solo parzialmente chiuso» disse lo scienziato «c’era un piccolo ovoide lungo circa cinque centimetri e largo meno di due. A un’estremità presentava una finestrella di mica. Il pugno toccava il cranio di R. Sammy, come se l’ultimo atto del robot fosse stato quello di portarsi una mano alla testa. L’oggetto che teneva in mano era un irraggiatore alfa. Sa di che si tratta, vero?»

Baley annuì. Non gli ci voleva né il dizionario né il vademecum della polizia per dire cos’era un irraggiatore alfa. Ne aveva usati parecchi, durante i corsi di fisica, e sapeva che si trattava di una scatoletta in lega di piombo con una piccola fessura longitudinale, in fondo alla quale c’era un frammento di plutonio. La fessura era coperta da un rivestimento di mica, sostanza trasparente alle particelle alfa. Dalla finestrella, quindi si irraggiavano radiazioni dure.

Aggeggi simili avevano parecchi usi, ma l’uccisione dei robot non era contemplata in quelli legali.

Baley disse: «Immagino che la mica fosse a contatto con la testa».

«Sì» riprese il dottor Gerrigel «e l’effetto delle radiazioni è stato di sconvolgere i circuiti positronici. Morte istantanea, per dir così.»

Baley si voltò verso il questore, più pallido che mai. «Nessun errore? Era proprio un irraggiatore alfa?»

Il questore annuì, sporgendo le labbra carnose. «Assolutamente. I contatori lo sentivano a tre metri di distanza. La pellicola contenuta nel deposito si è opacizzata, seccata e tagliata.»

Rifletté un secondo o due, poi disse bruscamente: «Dottor Gerrigel, temo che dovrà restare in Città un giorno o due per fornirci la sua deposizione, che registreremo su video. La farò scortare al suo alloggio. Non le dispiacerà essere messo sotto sorveglianza, spero».

Lo scienziato ribatté nervosamente: «Crede che sia necessario?».


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