Pronunciò la vecchia parola terrestre un po’ impettito, con un certo orgoglio per quella conoscenza linguistica.
Sutty provò a sorridere. «Okay» annuì.
Due
Rincasando in monorotaia, Sutty all’improvviso scoppiò in lacrime. Nessuno le badò. Accalcata nella vettura, stanca dopo il lavoro e intontita dal lungo tragitto tutto scossoni, la gente se ne stava seduta a osservare l’olo propagandistico sopra il corridoio: centinaia di bambini in divisa rossa che scalciavano e saltavano all’unisono seguendo un motivetto allegro che risuonava stridulo nell’aria.
Mentre saliva le numerose rampe di scale che portavano al suo appartamento, Sutty pianse ancora. Non c’era motivo di piangere. Doveva esserci un motivo. Doveva avere qualche malanno. La sofferenza che provava era paura, una paura maledetta che sfociava nel panico. Terrore. Terrore puro. Era pazzesca l’idea di farle compiere quel viaggio da sola. Tong era folle a pensare una cosa simile. Lei non sarebbe mai riuscita a farcela. Si sedette alla scrivania per inviargli una richiesta ufficiale di ritorno sulla Terra. Le parole hainiane, però, non le venivano. Erano tutte sbagliate.
Le doleva la testa. Si alzò per cercare qualcosa da mangiare. Non c’era nulla nella dispensa, assolutamente nulla. Quand’era che aveva mangiato l’ultima volta? Non a mezzogiorno. Non quella mattina. Non la sera prima.
«Cosa mi succede?» chiese all’aria. Non c’era da meravigliarsi se le faceva male lo stomaco. Non c’era da meravigliarsi se aveva attacchi di pianto e di panico. In vita sua, non si era mai dimenticata di mangiare. Perfino in quel periodo, il periodo successivo, quando era tornata in Cile, perfino allora si era cucinata i pasti e li aveva mangiati, cacciandosi in gola il cibo condito di lacrime salate, giorno dopo giorno.
«Non lo farò» disse. Non sapeva cosa intendeva dire. Si rifiutò di continuare a piangere.
Ridiscese le scale, mostrò il codice d’identità all’uscita, percorse dieci isolati fino al negozio di alimentari più vicino, un negozio della catena globale, mostrò il codice d’identità all’ingresso. Tutti i generi alimentari erano confezionati, trattati, surgelati, comodi: niente di fresco, niente da cucinare. La vista delle sfilze di roba impacchettata le fece sgorgare di nuovo le lacrime. Furiosa e umiliata, comperò un panino imbottito caldo al banco del "Già Pronto". L’uomo che la servì era troppo occupato per guardarla in faccia.
Si fermò fuori dal negozio, per strada, evitando di guardare i passanti, si ficcò in bocca il cibo bagnato di lacrime salate, e si sforzò di mandarlo giù, come aveva fatto allora, in quell’altro posto. Allora si era resa conto che doveva vivere. Era il suo compito. Continuare a vivere anche dopo la gioia. Lasciare dietro di sé amore e morte. Andare avanti. Andare avanti da sola e lavorare. E adesso voleva chiedere di essere rimandata sulla Terra? Alla morte?
Masticò e inghiottì. Dai veicoli che transitavano le giungevano raffiche smozzicate di musica e slogan. A quattro isolati, il semaforo di un incrocio si era guastato, e i clacson dei robotaxi strombazzavano più assordanti della musica. Gente a piedi — i produttori-consumatori dello Stato Azienda, in uniformi color ruggine, marrone chiaro, blu, verdi, o in calzoni, casacche e giacche standard fabbricate dall’Azienda, tutti con scarpe di tela StarMarch — le sfilava accanto accalcandosi, uscendo dai garage sotterranei, affrettandosi verso i condomini.
Sutty masticò e inghiottì l’ultimo boccone coriaceo di cibo, dolce e salato. Non sarebbe tornata indietro. Avrebbe continuato. Avrebbe continuato il suo lavoro, da sola. Tornò a casa, mostrò il codice d’identità all’entrata, e salì le otto rampe di scale. Le avevano assegnato un appartamento all’ultimo piano, ampio, vistoso, un appartamento ritenuto adatto a un ospite onorevole dello Stato Azienda. L’ascensore non funzionava da un mese.
Per poco non perse il battello. Il robotaxi si smarrì cercando di trovare il fiume. La portò all’Acquario, quindi al Dipartimento delle Risorse Idriche, poi di nuovo all’Acquario. Sutty dovette bloccare il controllo automatico e riprogrammare il mezzo tre volte. Mentre attraversava di corsa la banchina, l’equipaggio del Traghetto Otto del fiume Ereha stava già ritirando la passerella. Sutty gridò, gli uomini riabbassarono la passerella, e lei salì a bordo trafelata. Buttò i bagagli nella piccola cabina e tornò in coperta a osservare la città che le scorreva accanto.
Lì vicino all’acqua, sovrastata dalle pareti a strapiombo dei palazzoni commerciali e governativi, la città presentava un lato più squallido e tranquillo. Sotto enormi argini di cemento, c’erano pontili e magazzini di legno, anneriti dal tempo, un andirivieni di piccole imbarcazioni simili a tanti insetti acquatici, impegnate in attività che senza dubbio non erano degne dell’attenzione del Ministero del Commercio, e comunità di case galleggianti inghirlandate di rampicanti fioriti, e tanfo di liquami.
Un torrente scorreva in un alveo di cemento tra alte pareti scure e si gettava nel grande fiume. Sopra di esso, appoggiato al parapetto di un ponte a schiena d’asino, c’era un pescatore: una sagoma semplice, immobile, fuori del tempo… l’immagine di un disegno in uno dei libri akani che avevano parzialmente recuperato dalla trasmissione sabotata.
Con quanta reverenza si era accostata a quelle poche pagine di immagini, versi poetici, frammenti di prosa, con quanta attenzione le aveva esaminate, là a Valparaíso, cercando di capire da quelle pagine come fossero gli abitanti di quest’altro mondo, desiderosa di conoscerli. Non era stato facile cancellare le copie dal suo noter, lì su Aka, e nonostante quello che diceva Tong, secondo lei era stata una cosa sbagliata, una capitolazione al nemico. Aveva studiato le copie nel suo noter un’ultima volta, con amore, con dolore, cercando di assimilarle prima di distruggerle. "E non ci sono orme nella polvere dietro di noi…" Aveva chiuso gli occhi mentre cancellava quella poesia. Facendolo, le era sembrato di cancellare tutte le sue struggenti speranze di scoprirne il significato, una volta giunta su Aka.
Però ricordava i quattro versi della poesia, e la speranza e lo struggimento erano ancora vivi.
I motori silenziosi del Traghetto Otto borbottavano sommessi. Col passare delle ore, gli argini artificiali si fecero sempre più bassi, più vecchi, interrotti con maggior frequenza da scale e approdi. Alla fine, scomparvero del tutto, lasciando il posto a fango e canne e sponde cespugliose, e l’Ereha si allargò sempre più, scorrendo sorprendentemente ampio attraverso una piatta distesa di campi verdi e giallo-verdi.
Per cinque giorni il battello navigò verso est su quel placido corso d’acqua, sotto un sole mite e nella mite oscurità stellata, stagliandosi come la cosa più alta nel paesaggio circostante. Di tanto in tanto giungeva a una città fluviale, attraccava a un vecchio molo sovrastato da nuovi palazzoni commerciali e residenziali, e prendeva a bordo provviste e passeggeri.
Sutty scoprì che era incredibilmente facile parlare con la gente sul battello. A Dovza City, tutto contribuiva a determinare in lei un atteggiamento riservato e taciturno. Anche se i quattro extraplanetari disponevano di appartamenti privati e di una certa libertà di movimento, l’Azienda organizzava la loro vita in modo molto rigoroso, fissando appuntamenti, programmando e sorvegliando il loro lavoro e gli svaghi. Non che fossero gli unici a essere tanto controllati: il repentino e gigantesco progresso tecnologico di Aka era sostenuto da una rigida disciplina, fatta osservare universalmente e accettata da tutti. Sembrava che tutti in città lavorassero sodo, per parecchie ore, dormissero poco, mangiassero in fretta. Ogni ora era programmata. Tutte le persone dei Ministeri della Poesia e dell’Informazione con cui Sutty era stata in contatto sapevano esattamente cosa volevano che facesse e in che modo doveva farlo, e non appena lei cominciava a eseguire le istruzioni ricevute, i suoi interlocutori se ne andavano in fretta per i fatti loro, lasciando che lei si occupasse dei propri.