Tre
Il viaggio meraviglioso di un battello che risaliva un fiume attraverso un deserto terminò il decimo giorno a Okzat-Ozkat. Sulla carta geografica la cittadina era un puntino ai margini di un esteso groviglio di isobare, la Grande Catena delle Sorgenti. A tarda sera, nell’oscurità fredda e limpida, era un’immagine confusa di muri biancastri, fioche finestre orizzontali poste in alto, odori di polvere e di sterco e di frutta marcia e una fragranza secca d’aria di montagna, una cantilena di voci, uno scalpiccio di piedi sulla pietra. Traffico su ruote quasi inesistente. Un bagliore rossastro scintillava in lontananza su una costruzione alta, scolorita, appena visibile sopra i tetti ornati, sullo sfondo verdognolo degli ultimi sprazzi di luce del cielo a ovest.
Gli annunci e la musica dell’Azienda risuonavano assordanti sui pontili. Quel rumore, dopo dieci giorni di voci sommesse e di silenzio del fiume, indusse Sutty ad allontanarsi subito.
Nessuna guida turistica la stava aspettando. Nessuno la seguì. Nessuno le chiese di mostrare il codice d’identità.
Ancora prigioniera dell’estasi passiva del viaggio, curiosa, nervosa, attenta, vagò per le strade vicino al fiume finché non cominciò a sentire tutto il peso della borsa a tracolla e la sferza pungente del vento. In una stradina buia in salita, si fermò davanti a una porta. La porta della casa era aperta, e una donna sedeva su una sedia nella luce gialla proveniente dall’interno, come se stesse godendosi una dolce serata estiva.
«Sai dirmi dove posso trovare una locanda?»
«Qui» disse la donna. Era disabile, notò adesso Sutty, con gambe che parevano stecchi. «Ki!» chiamò.
Apparve un ragazzo che dimostrava una quindicina d’anni. Senza una parola, invitò Sutty a entrare nella casa. La condusse in una grande stanza a pianterreno, una stanza dal soffitto alto, scura, arredata con un tappeto. Era un tappeto magnifico: lana cremisi di eberdin, con disegni concentrici in bianco e nero, austeri e complessi. L’unico altro oggetto nella stanza era l’apparecchio per l’illuminazione, una strana lampada grosso modo quadrata, piuttosto debole, collocata tra due alte finestre orizzontali. Il filo della lampada entrava da una finestra.
«C’è un letto?»
Il ragazzo indicò con un gesto timido una tenda in un angolo buio all’estremità opposta della sala.
«Bagno?»
Il ragazzo piegò la testa in direzione di una porta. Sutty andò ad aprirla. Tre gradini piastrellati scendevano in una stanzetta anch’essa piastrellata, in cui c’erano diversi strani ma interpretabili arnesi di legno, metallo e ceramica, che brillavano nel caldo bagliore di una stufetta elettrica.
«Tutto molto bello» disse Sutty. «Quanto costa?»
«Undici haha» mormorò il ragazzo.
«La notte?»
«Per una settimana.» La settimana akana era di dieci giorni.
«Oh, benissimo» annuì Sutty. «Grazie.»
Sbagliato. Non avrebbe dovuto ringraziarlo. I ringraziamenti erano "locuzioni servili". I titoli onorifici e le insignificanti espressioni rituali di saluto, di commiato, di richiesta di permesso, e di falsa gratitudine, per favore, grazie, non c’è di che, addio, resti fossili di un’ipocrisia primitiva: tutti ostacoli che intralciavano un rapporto autentico e sincero tra i produttori-consumatori. Sutty aveva imparato la lezione, in quei termini, poco dopo il suo arrivo su Aka. Si era esercitata fino a perdere del tutto simili brutte abitudini prese sulla Terra. Come mai adesso le era uscito di bocca quel selvaggio ringraziamento?
Il ragazzo si limitò a sussurrare qualcosa, parole che lei gli chiese di ripetere: un’offerta di cibo. Sutty accettò senza ringraziare.
Mezz’ora dopo, il ragazzo portò nella stanza un tavolino basso, apparecchiato con una tovaglia stampata e piatti di porcellana rosso scuro. Dietro la tenda, Sutty aveva trovato dei cuscini e un materassino bene imbottito; aveva appeso i propri indumenti alla sbarra e ai pioli che aveva trovato sempre dietro la tenda; aveva sistemato libri e taccuini sul pavimento lucido, sotto l’unica luce; e adesso era seduta sul tappeto, senza fare nulla. Le piaceva lo straordinario senso di spazio di quella stanza… ampiezza, altezza, silenzio.
Il ragazzo le servì una cena che comprendeva carne di pollame arrosto, verdure arrostite, un cereale bianco che sapeva di mais, e un tè aromatico tiepido. Accovacciata sul tappeto serico, Sutty mangiò tutto quanto. Il ragazzo si affacciò silenzioso un paio di volte per vedere se avesse bisogno di qualcosa.
«Dimmi il nome di questo cereale, per favore.» No. sbagliato. «Ma prima, dimmi come ti chiami.»
«Akidan» mormorò lui. «Quello è tuzi.»
«È buonissimo. Non l’avevo mai mangiato. Cresce qui?»
Akidan annuì. Aveva un viso forte, dolce, ancora da bambino, però s’intravedeva già l’uomo. «Fa bene al bosco» mormorò.
Sutty annuì saggia. «Ed è squisito.»
«Grazie, yoz.» Yoz: un termine definito dall’Azienda un appellativo servile, e bandito da almeno cinquant’anni. Significava, più o meno, persona come me, mio simile. Sutty non aveva mai sentito pronunciare quella parola se non sui nastri con cui aveva imparato le lingue akane sulla Terra. E "fa bene al bosco", era anche quello un fossile maligno? Forse l’avrebbe scoperto l’indomani. Quella sera avrebbe fatto il bagno, avrebbe srotolato il materassino e dormito nel silenzio benedetto di quel luogo montano.
Un lieve bussare, presumibilmente di Akidan, la guidò alla colazione, che aspettava sul tavolinetto fuori dalla porta. C’erano un grosso frutto tagliato e senza semi, pezzetti di qualcosa di giallo e piccante su un piattino, una pagnottella friabile grigiastra e una tazza senza manico di tè tiepido, questa volta leggermente amaro, con un sapore che all’inizio non le piacque, ma che trovò sempre più gradevole. Frutta e pane erano freschi e delicati. Sutty non mangiò la strana roba gialla sottaceto. Quando il ragazzo tornò per portare via il tavolino, gli chiese il nome di ogni cosa, perché era cibo del tutto diverso da quello che aveva mangiato nella capitale, e perché le era stato servito con cura considerevole. La vivanda sottaceto era abid, le spiegò Akidan. «È per la mattina presto» disse. «Per aiutare la frutta dolce.»
«Quindi dovrei mangiarlo?»
Akidan sorrise imbarazzato. «Aiuta a equilibrare.»
«Capisco. Lo mangerò, allora.» Sutty lo fece. Il ragazzo parve contento. «Sai, Akidan, vengo da molto lontano.»
«Da Dovza City.»
«Da ancora più lontano. Da un altro mondo. Dalla Terra dell’Ekumene.»
«Ah.»
«Quindi ignoro come si vive qui. Mi piacerebbe farti tante domande. Va bene?»
Akidan si strinse leggermente nelle spalle, annuendo, un gesto molto adolescenziale. Per quanto timido, era padrone di sé. Qualunque cosa significasse per lui, accettava con disinvoltura il fatto che un’Osservatrice dell’Ekumene, un’extraplanetaria che in teoria lui avrebbe dovuto vedere solo come immagine elettronica trasmessa dalla capitale, vivesse lì, in casa sua. Nemmeno un’ombra della xenofobia che Sutty aveva colto nell’individuo sgradevole incontrato sul battello.
La zia di Akidan, la disabile, che sembrava tormentata costantemente da una leggera sofferenza, parlava poco e non sorrideva, ma aveva lo stesso atteggiamento tranquillo e ospitale. Sutty si accordò con lei per un soggiorno di due settimane, forse più. Si era domandata se fosse l’unica cliente della locanda; ora, orizzontandosi nella casa, scoprì che c’era una sola camera per gli ospiti.
Nella metropoli, in ogni albergo e abitazione, in ogni ristorante, negozio, emporio, ufficio o dipartimento, quando si entrava e si usciva veniva sempre controllato in modo automatico il chip d’identità, l’importantissimo codice personale, la garanzia della propria esistenza come produttore-consumatore registrata nelle banche dati dell’Azienda. Il suo codice personale le era stato rilasciato nel corso delle lunghe formalità d’ingresso allo spazioporto. Senza di esso, l’avevano avvertita, lei non aveva identità su Aka. Non poteva affittare una stanza né noleggiare un robotaxi, non poteva comprare cibo al mercato né mangiare al ristorante, non poteva entrare in nessun edificio pubblico senza far scattare un allarme. La maggior parte degli akani aveva il chip inserito nel polso sinistro. Lei aveva preferito portare il proprio in un braccialetto apposito. Mentre parlava con la zia di Akidan nel piccolo ufficio sul davanti della casa, si guardò attorno in cerca del lettore di codice d’identità, pronta a compiere col braccio sinistro il gesto universale. Ma la donna fece ruotare la sedia verso un’imponente scrivania con decine di cassettini. Dopo parecchi errori, e pause per riflettere, trovò il cassetto che cercava, tirò fuori un polveroso libretto di moduli e ne staccò uno. Girò di nuovo la sedia e porse il modulo a Sutty, perché lo compilasse a mano. Era così vecchio che la carta era friabile, però c’era proprio uno spazio per il codice d’identità.