— Accade molto di rado — disse infine il giovane, — che i draghi chiedano di fare favori agli uomini.
— Ma accade molto spesso — replicò il drago, — che i gatti giochino col topo prima di ucciderlo.
— Ma non sono venuto qui per giocare, né perché tu giochi con me. Sono venuto per concludere con te un patto.
Affilata come una spada, ma cinque volte più lunga di una spada, la punta della coda del drago s’inarcò, come quella di uno scorpione, sul dorso corazzato, al di sopra della torre. Seccamente, il drago disse: — Io non concludo patti. Io prendo. Cos’hai da offrirmi che io non possa prenderti quando voglio?
— La salvezza. La tua salvezza. Giura che non volerai mai a est di Pendor, e io giurerò di non farti del male.
Dalla gola del drago uscì un suono stridente come lo scroscio di una frana lontana, di pietre che precipitano tra le montagne. Il fuoco danzò lungo la lingua trifida. Il drago si sollevò più in alto, giganteggiando sulle rovine. — Tu mi offri la salvezza! Tu mi minacci! Con che cosa?
— Col tuo nome, Yevaud.
La voce di Ged tremava mentre pronunciava il nome, ma lo pronunciò forte e chiaro. A quel suono il vecchio drago restò immobile, assolutamente immobile. Trascorse un minuto, e poi un altro; e poi Ged, in piedi sulla barchetta ondeggiante, sorrise. Aveva puntato l’esito dell’impresa e la propria vita su un’intuizione tratta dalle vecchie storie dei draghi apprese a Roke, l’intuizione che il drago di Pendor fosse lo stesso che aveva devastato la parte occidentale di Osskil ai tempi di Elfarran e di Morred ed era stato cacciato da Osskil a opera di un mago, Elt, esperto nei nomi. L’intuizione si era rivelata esatta.
— Siamo pari, Yevaud. Tu hai la tua forza: io ho il tuo nome. Sei disposto a concludere il patto?
Il drago non rispose.
Da molti anni viveva sull’isola, dove corazze d’oro e smeraldi giacevano sparsi tra la polvere e i mattoni e le ossa; aveva visto i suoi figli, simili a enormi lucertole nere, giocare tra le case diroccate e provare le ali lanciandosi dagli strapiombi; aveva dormito a lungo al sole, senza mai essere destato da una voce o da una vela. Adesso era difficile muoversi, fronteggiare quel ragazzo-mago, quel nemico fragile, alla vista del cui bastone Yevaud, il vecchio drago, rabbrividiva.
— Puoi scegliere nove gemme dal mio tesoro — disse infine, con la voce che gli usciva sibilante e affannosa dalle lunghe fauci. — Le migliori: scegli quelle che vuoi. Poi va’!
— Non voglio le tue gemme, Yevaud.
— Dov’è finita l’avidità degli uomini? Ai vecchi tempi, nel nord, gli uomini amavano le gemme luccicanti. Io so cosa vuoi, mago. Anch’io posso offrirti la salvezza, perché so cosa può salvarti. Io conosco la sola cosa che può salvarti. C’è un orrore che ti segue. Ti dirò il suo nome.
Ged si sentì balzare il cuore nel petto e strinse forte il bastone, restando immobile come il drago. Lottò per un istante contro l’improvvisa e sconvolgente speranza.
Non era venuto a trattare per la propria vita. Poteva avere sul drago una vittoria, e una soltanto. Accantonò la speranza e fece ciò che doveva.
— Non è questo che chiedo, Yevaud.
Quando pronunciò il nome del drago fu come se tenesse l’essere enorme per un guinzaglio esilissimo, stringendolo alla gola. Sentiva l’antica malignità ed esperienza degli uomini nello sguardo posato su di lui; vedeva gli artigli d’acciaio, ognuno dei quali era lungo come l’avambraccio di un uomo, e la pelle dura come la pietra, e il fuoco che covava nella gola del drago; eppure il guinzaglio si stringeva, si stringeva.
Ged parlò di nuovo: — Yevaud! Giura per il tuo nome che tu e i tuoi figli non verrete mai nell’arcipelago!
Le fiamme eruppero all’improvviso fulgide e rumorose dalle fauci del drago, che disse: — Lo giuro per il mio nome!
Poi sull’isola scese il silenzio, e Yevaud abbassò l’enorme testa.
Quando la rialzò e guardò, il mago se n’era andato e la vela dell’imbarcazione era un puntolino bianco sulle onde, verso occidente, diretto alle ricche isole ingemmate dei mari interni. In preda alla rabbia, il vecchio drago di Pendor s’innalzò, schiantando la torre con le contorsioni del suo corpo e sbattendo le ali che erano ampie quanto la città in rovina. Ma il suo giuramento lo tratteneva: e non volò, né allora né mai, verso l’arcipelago.
BRACCATO
Appena Pandor sparì oltre l’orlo del mare dietro di lui, Ged, guardando verso oriente, si sentì tornare nel cuore la paura dell’ombra, e gli fu difficile passare dal nitido pericolo dei draghi a quell’orrore informe e irrimediabile. Lasciò cadere il vento magico e veleggiò col vento del mondo, perché adesso non aveva desiderio di affrettarsi. Non aveva neppure un’idea chiara di ciò che doveva fare. Doveva fuggire, come aveva detto il drago: ma dove? A Roke, pensò, poiché là almeno era protetto e poteva chiedere consiglio ai saggi.
Prima, però, doveva ritornare a Torning Bassa e riferire agli isolani. Quando giunse notizia del suo ritorno, cinque giorni dopo la partenza, i maggiorenti e metà della popolazione della municipalità vennero, remando e correndo, a raccogliersi intorno a lui, a guardarlo sbalorditi e ad ascoltare. Ged fece il suo racconto e un uomo chiese: — Ma chi ha visto questo prodigio, draghi uccisi e draghi domati? E se…
— Taci! — disse bruscamente il capo, perché sapeva, come sapevano quasi tutti, che un mago può avere modi sottili di dire la verità e può tenere la verità per sé: ma se dice una cosa, è veramente così. Perché questo è il suo potere. Perciò si stupirono, e poi cominciarono a sentire che non avevano più motivo di temere, e si rallegrarono. Si strinsero intorno al loro giovane mago e gli chiesero di ripetere il suo racconto. Arrivarono altri isolani e chiesero di udirlo anche loro. Prima del cader della notte, non fu più necessario che Ged lo ripetesse. Potevano farlo gli altri per lui, e anche meglio. Già i cantori del villaggio l’avevano adattato a una vecchia melodia, e intonavano il Canto dello Sparviero. I falò ardevano non solo sull’isola di Torning Bassa ma nelle municipalità al sud e all’est. I pescatori gridavano la notizia da barca a barca, da isola a isola: il male è scongiurato, i draghi non verranno mai da Pendor!
Quella notte, quell’unica notte, fu felice per Ged. Nessuna ombra poteva avvicinarsi a lui nel fulgore di quei fuochi di ringraziamento che ardevano su ogni collina e su ogni spiaggia, tra i cerchi di danzatori ridenti che lo circondavano cantando le sue lodi e agitando le torce nella ventosa notte d’autunno così che le scintille volavano fitte e lucenti e brevi nel vento.
Il giorno seguente s’incontrò con Pechvarry, che disse: — Non sapevo che tu fossi tanto potente, mio signore. — C’era paura nelle sue parole perché aveva osato trattare Ged come un amico, ma c’era anche un rimprovero. Ged non aveva salvato il suo figlioletto, sebbene avesse ucciso i draghi. Ged provò allora, rinnovata, l’inquietudine impaziente che l’aveva spinto a Pendor e che adesso l’allontanava da Torning Bassa. Il giorno seguente, anche se gli isolani sarebbero stati felici di tenerlo con loro per tutto il resto della sua vita, per lodarlo e vantarsi di lui, lasciò la casa sulla collina, senza altro bagaglio che i suoi libri, il suo bastone, e l’otak appollaiato sulla spalla.
Salì su una barca con due giovani pescatori di Torning Bassa, che volevano l’onore di essere i suoi rematori. Dovunque passassero, tra le imbarcazioni che affollavano i canali orientali delle Novanta Isole, sotto le finestre e i balconi delle case affacciate sull’acqua, davanti ai moli di Nesh, ai pascoli piovosi di Dromgan, alle maleodoranti capanne di Geath dove si produce l’olio, erano stati preceduti dalla fama della sua impresa. Tutti fischiettavano il Canto dello Sparviero al suo passaggio, e facevano a gara nell’invitarlo a passare la notte con loro perché raccontasse la storia del drago. Quando finalmente giunse a Serd, il comandante della nave cui chiese un passaggio fino a Roke s’inchinò e disse: — È un privilegio per me, nobile mago, e un onore per la mia nave!