Così Ged voltò le spalle alle Novanta Isole; ma mentre la nave si allontanava dal porto interno di Serd e alzava la vela, da oriente un vento fortissimo si levò per contrastarla. Era strano, perché il cielo invernale era sereno e quel mattino il tempo sembrava buono. C’erano soltanto trenta miglia da Serd a Roke, e proseguirono: e quando il vento rinforzò, continuarono a proseguire. La piccola nave, come quasi tutti i mercantili del mare Interno, aveva l’alta vela che si può girare per prendere il vento, e il suo comandante era un marinaio esperto, fiero della propria abilità. E così, bordeggiando ora a nord e ora a sud, avanzarono verso oriente. Il vento portò nubi e pioggia, e spirava così forte e capriccioso da mettere in pericolo la nave. — Nobile Sparviero — disse il capitano al giovane, che teneva accanto a sé al posto d’onore a poppa, sebbene fosse possibile conservare ben poca dignità sotto quel vento e quella pioggia che infradiciavano i loro mantelli, — nobile Sparviero, potresti dire una parola a questo vento?
— Siamo vicini a Roke?
— Abbiamo superato metà percorso. Ma nell’ultima ora non siamo andati più avanti, signore.
Ged parlò al vento. Il vento spirò meno forte, e per un po’ procedettero abbastanza bene. Poi, all’improvviso, grandi raffiche sibilanti vennero dal sud e li respinsero di nuovo verso occidente. Le nubi si squarciarono e ribollirono nel cielo, e il comandante della nave urlò rabbioso: — Questo maledetto vento spira contemporaneamente da tutte le parti! Solo un vento magico potrà portarcene fuori, signore.
Ged s’incupì; ma la nave e i suoi uomini erano in pericolo per lui, perciò suscitò nella vela il vento magico. Subito la nave cominciò a fendere le onde verso est, e il comandante si rianimò. Ma a poco a poco, sebbene Ged mantenesse l’incantesimo, il vento magico si attenuò, s’indebolì, fino a quando la nave parve arrestarsi sulle onde per un minuto, con la vela afflosciata, in quel tumulto di bufera e di pioggia. Poi, con uno scroscio tonante, il boma ruotò violentemente, e la nave virò e balzò verso nord come un gatto impaurito.
Ged si aggrappò a un sostegno, perché la nave era inclinata sul fianco, e urlò: — Torna a Serd, comandante!
Il comandante imprecò e gridò che non l’avrebbe fatto. — Ho a bordo un mago, e io sono il miglior marinaio della corporazione, e questa è la nave più maneggevole che abbia mai comandato… Tornare indietro?
Poi, mentre la nave roteava di nuovo come se un gorgo l’avesse afferrata, si aggrappò a sua volta al dritto di poppa per non cadere in acqua; e Ged gli disse: — Lasciami a Serd e dirigiti dove vuoi. Non è contro questa nave che spira il vento, ma contro di me.
— Contro di te? Un mago di Roke?
— Sì, è il vento che tiene lontane le potenze maligne dall’isola dei Saggi.
— Ma cosa c’entra con te, che sei un domatore di draghi?
— Questo è tra me e la mia ombra — rispose laconicamente Ged, come è usanza dei maghi; e non disse altro mentre procedevano veloci in direzione di Serd, con un vento costante e sotto il cielo che si schiariva.
C’era un peso spaventoso nel suo cuore, quando Ged salì dai moli di Serd. I giorni si stavano accorciando poiché si avvicinava l’inverno, e il crepuscolo venne presto. Al crepuscolo l’inquietudine di Ged cresceva sempre, e adesso ogni angolo di strada sembrava minacciarlo, e doveva farsi forza per non continuare a voltarsi indietro a spiare ciò che poteva seguirlo. Andò alla Casa del Mare di Serd, dove viaggiatori e mercanti mangiavano insieme i buoni cibi forniti dalla municipalità e potevano dormire nella lunga sala dal soffitto a travi: tale è l’ospitalità delle prospere isole del mare Interno.
Ged avanzò un pezzetto di carne dalla sua cena, e dopo, accanto al fuoco, indusse l’otak a uscire dalla piega del cappuccio dov’era rimasto rannicchiato tutto il giorno e cercò di convincerlo a mangiare, accarezzandolo e sussurrandogli: — Hoeg, hoeg, piccolino, silenzioso… — Ma la bestiola non volle mangiare a andò a nascondersi nella sua tasca. Ormai, dalla sua cupa incertezza e dall’aspetto dell’oscurità negli angoli della grande stanza, Ged comprese che l’ombra non era molto lontana da lui.
Lì nessuno lo conosceva: erano viaggiatori provenienti da altre isole, che non avevano udito il Canto dello Sparviero. Nessuno gli rivolse la parola. Alla fine scelse un pagliericcio e si sdraiò, ma per tutta la notte restò a occhi aperti, in mezzo a quegli sconosciuti addormentati. Per tutta la notte tentò di scegliere una strada, di decidere dove andare e cosa fare: ma ogni scelta, ogni piano, erano bloccati da una premonizione di sventura. Su ognuna delle strade che poteva percorrere stava in agguato l’ombra. Solo Roke ne era immune, e a Roke non poteva andare. Glielo vietavano gli antichi e potenti incantesimi che tenevano al sicuro quell’isola pericolosa. Il fatto che il vento di Roke si fosse levato contro di lui era la prova che la cosa che l’inseguiva doveva essergli ormai vicinissima.
Quella cosa era incorporea, cieca alla luce del sole, una creatura di un regno senza luce e senza luogo e senza tempo. Doveva seguirlo brancolando attraverso i giorni e i mari del mondo illuminato dal sole, e poteva assumere forma visibile solo nei sogni e nell’oscurità. Non aveva ancora sostanza o essenza su cui potesse brillare la luce solare, eppure le Gesta di Hode cantavano: «L’alba crea tutta la terra e il mare, dall’ombra trae la forma, ricacciando il sogno nel regno tenebroso». Ma se l’ombra avesse raggiunto Ged, avrebbe potuto trarre potere da lui e prendere il peso e il calore e la vita del suo corpo e la volontà che l’animava.
Quello era l’orrore che Ged vedeva in agguato davanti a sé su ogni strada. E sapeva che poteva essere spinto con l’inganno verso la catastrofe: perché l’ombra, diventando più forte tanto più era vicina a lui, poteva avere già forza sufficiente per sfruttare poteri maligni o uomini malvagi… mostrandogli falsi portenti, o parlando con la voce di uno sconosciuto. A quanto ne sapeva, in uno degli uomini che dormivano in questo o in quell’angolo dello stanzone della Casa del Mare, quella notte, stava in agguato la cosa tenebrosa, trovando un appiglio in un’anima buia e attendendo e spiandolo, nutrendosi della sua incertezza, della sua paura.
Era insopportabile. Doveva affidarsi al caso, e fuggire dovunque lo portasse il caso. Al primo freddo accenno dell’alba si alzò, e sotto le stelle che sbiadivano scese ai moli di Serd, deciso a salire sulla prima nave in partenza disposta a prenderlo a bordo. Una galea stava caricando olio di turby: avrebbe fatto vela al levar del sole, diretta al Grande Porto di Havnor. Ged chiese un passaggio al comandante. Un bastone da mago è un passaporto e un pagamento per quasi tutte le navi. L’accettarono volentieri, ed entro un’ora la galea salpò. Lo spirito di Ged si risollevò al primo alzarsi dei quaranta lunghi remi, e il rullo del tamburo che segnava il ritmo era per lui una musica marziale.
Eppure non sapeva cos’avrebbe fatto a Havnor e dove sarebbe andato poi. Poteva andare verso nord. Lui era settentrionale: forse avrebbe trovato qualche nave che l’avrebbe portato a Gont da Havnor, e avrebbe potuto rivedere Ogion. Oppure poteva trovarne una che si spingeva negli stretti, così lontano che l’ombra avrebbe perso le sue tracce e rinunciato all’inseguimento. Oltre a quelle vaghe idee, non aveva in mente un piano e non vedeva quale via doveva seguire. Doveva fuggire e basta…
I quaranta remi portarono la nave per centocinquanta miglia di mare ventoso prima del tramonto del secondo giorno dopo la partenza da Serd. Entrarono nel porto a Orrimy, sulla costa orientale della grande terra di Hosk, perché le galee mercantili del mare Interno non si allontanano dalle coste e appena possono si fermano in un porto per passare la notte. Ged scese a terra, perché era ancora giorno, e vagò per le ripide vie della città portuale, cupo e senza meta.