Cercò di rispondere, ma non aveva voce. La fievole luce divenne più distinta: splendeva attraverso un varco che gli stava direttamente davanti. Non riusciva a scorgere i muri, ma vedeva la porta. Si arrestò, e il gebbeth gli afferrò il mantello e si agitò brancolando, cercando di stringerlo da tergo. Con le sue ultime forze, Ged si lanciò attraverso la porta lucente. Tentò di voltarsi per chiuderla, per bloccare il gebbeth, ma le gambe non lo sorreggevano più. Vacillò, tendendo le braccia per aggrapparsi. Mille luci rotearono e balenarono davanti ai suoi occhi. Si sentì cadere, e si sentì afferrare mentre cadeva; ma la sua mente, interamente svuotata, scivolò nell’oscurità.

IL VOLO DEL FALCO

Ged si svegliò e restò desto a lungo, consapevole soltanto del piacere di svegliarsi, perché non aveva immaginato di destarsi ancora: ed era un piacere anche vedere tutt’intorno a sé la luce, la grande e semplice luce del giorno. Aveva la sensazione di galleggiare su quella luce, o di andare alla deriva in una barca su acque calmissime. Infine si rese conto che era a letto: ma non aveva mai dormito in un letto simile. La struttura era retta da quattro alte gambe scolpite, e i materassi erano di seta, imbottiti di piumini, ed era questo che gli dava l’impressione di galleggiare; e c’era un baldacchino cremisi per escludere le correnti d’aria. Su due lati i cortinaggi erano aperti, e Ged vide una stanza dalle mura e dal pavimento di pietra. Dalle tre alte finestre scorse la brughiera, spoglia e bruna, chiazzata qua e là di neve nel fioco sole dell’inverno. La stanza doveva trovarsi in alto, perché si poteva vedere molto lontano.

La trapunta di raso scivolò quando Ged si sollevò a sedere: e lui vide che era abbigliato di una tunica di seta e di stoffa d’argento, come un nobile. Su una sedia accanto al letto erano pronti stivali di pelle morbidissima e un mantello foderato di pelliccia di pellawi. Restò per un po’ seduto, calmo e stordito come se fosse sotto l’effetto di un incantesimo, e poi si alzò, tendendo la mano per prendere il bastone. Ma il bastone non c’era.

La sua mano destra, sebbene fosse stata spalmata di unguento e fasciata, era ustionata sul palmo e sulle dita. Ged ne sentì il dolore, e avvertì anche l’indolenzimento che gl’intormentiva tutto il corpo.

Restò immobile ancora per un po’. Poi mormorò, senza alzare la voce e senza speranza: — Hoeg… hoeg… — Infatti era scomparsa anche la piccola e combattiva e fedele bestiola, la piccola anima silenziosa che l’aveva ricondotto indietro dal regno della morte. Era ancora con lui, la notte precedente, quando era fuggito? Era stata la notte prima o molte notti prima? Non lo sapeva. Era tutto oscuro e vago, nella sua mente: il gebbeth, il bastone ardente, la fuga, il bisbiglio, la porta. Non riusciva a ricordare nulla con chiarezza. Mormorò ancora una volta il nome del suo animaletto, ma senza speranza di trovare risposta, e gli occhi gli si riempirono di lacrime.

Lontano, chissà dove, suonò un campanello. Un secondo campanello tintinnò dolcemente, appena fuori dalla stanza. Una porta si aprì dietro di lui, ed entrò una donna. — Benvenuto, Sparviero — disse sorridendo.

Era alta e giovane, vestita di bianco e d’argento, e una rete d’argento le incoronava la chioma, che le scendeva sulle spalle come una cascata d’acque nere.

Ged s’inchinò, rigidamente.

—  Non ti ricordi di me, credo.

—  Ricordarmi di te, signora?

Non aveva mai visto una bella donna abbigliata in modo confacente alla sua bellezza, con una sola eccezione: la signora di O, che era venuta con il consorte alla festa del solstizio d’inverno a Roke. Quella era come un’esile e fulgida fiamma di candela, ma questa donna era come la luna nuova.

—  Lo immaginavo, che non mi avresti ricordata — disse lei sorridendo. — Ma anche se sei così portato a dimenticare, qui sei il benvenuto, come un vecchio amico.

—  Che luogo è questo? — chiese Ged, ancora irrigidito e cauto. Gli era difficile parlarle, difficile distogliere gli occhi da lei. Le vesti principesche che indossava gli erano estranee, le pietre su cui stava ritto gli erano sconosciute, la stessa aria che respirava non gli era familiare: non era se stesso, non era colui che era stato.

—  Questa fortezza si chiama corte del Terrenon. Il mio signore, Benderesk, è sovrano di questa terra dal limitare delle brughiere di Keksment al nord fino alle montagne di Os, e detiene la pietra preziosa chiamata Terrenon. Quanto a me, qui a Osskil mi chiamano Serret, Argento nella loro lingua. E tu, lo so, talvolta sei chiamato Sparviero, e sei stato proclamato mago nell’isola dei Saggi.

Ged abbassò lo sguardo sulla mano ustionata e dopo qualche istante disse: — Non lo so, cosa sono. Avevo il potere, un tempo. L’ho perduto, credo.

—  No! Non l’hai perduto, o se l’hai perduto lo ritroverai decuplicato. Qui sei al sicuro da ciò che t’inseguiva, amico mio. Ci sono mura possenti intorno a questa torre, e non tutte sono costruite di pietra. Qui potrai riposare e recuperare le forze. Qui potrai anche trovare una forza diversa, e un bastone che non andrà in cenere nella tua mano. Una via malvagia può condurre a un buon fine, dopotutto. Ora vieni con me: lascia che ti mostri il nostro dominio.

Serret parlava con tanta dolcezza che Ged quasi non udiva le sue parole, mosso dalla promessa di quella voce. La seguì.

La stanza era veramente situata in alto nella torre che si levava davvero come un dente acuminato dalla sommità della collina. Ged seguì Serret per le tortuose scale di marmo, attraverso ricche sale e anticamere, passando davanti ad alte finestre affacciate a nord e a ovest, e a sud e a est sulle basse colline brune, senza case e senza alberi, immutabili, che giungevano fino al cielo invernale inondato di sole. Soltanto lontano, a nord, piccole vette bianche spiccavano nitide contro l’azzurro, e verso sud si poteva intuire il luccichio del mare.

I servitori aprivano le porte e si scostavano per lasciar passare Ged e la dama; erano tutti osskiliani pallidi e cupi. Lei aveva la carnagione chiara, ma a differenza dei servitori parlava bene l’hardese: a Ged parve addirittura che avesse l’accento di Gont. Più tardi, quel giorno, lo condusse alla presenza del suo consorte Benderesk, signore di Terrenon. Il nobile Benderesk, che aveva tre volte gli anni della moglie ed era esile e bianco come l’avorio e aveva gli occhi annebbiati, accolse Ged con fredda cortesia, invitandolo a rimanere suo ospite per tutto il tempo che voleva. Poi parlò poco, senza chiedere a Ged dei suoi viaggi e del nemico che l’aveva inseguito fin lì; e neppure Serret gli aveva chiesto nulla in proposito.

Se ciò era strano, era soltanto parte della stranezza di quel luogo e della sua presenza lì. Sembrava che la sua mente non si schiarisse mai del tutto. Non riusciva a vedere le cose nitidamente. Era venuto a quella fortezza per caso, eppure il caso era tutto un disegno; o forse era venuto per un disegno, che tuttavia s’era realizzato solo per caso. Si era diretto verso nord; a Orrimy uno sconosciuto gli aveva detto di cercare aiuto lì; una nave osskiliana era là ad attenderlo; Skiorh l’aveva guidato. Quanto di tutto ciò era opera dell’ombra che l’inseguiva? O forse no: che lui e il suo inseguitore fossero stati attirati lì da qualche altro potere, e lui avesse seguito l’attrazione e l’ombra avesse seguito lui, impadronendosi di Skiorh per usarlo come arma quando fosse venuto il momento? Doveva essere così, perché certamente l’ombra, come aveva detto Serret, non poteva penetrare nella corte del Terrenon. Lui non sentiva il segno o la minaccia della sua presenza da quando si era risvegliato nella torre. Ma allora, cosa l’aveva portato lì? Perché quello non era un luogo dove si capitava per caso: cominciava a rendersene conto nonostante la confusione dei suoi pensieri. Nessun altro forestiero giungeva a quelle porte. La torre era remota e altera, e voltava le spalle alla strada per Neshum, che era la città più vicina. Nessuno veniva alla fortezza, nessuno la lasciava. Le finestre erano affacciate sulla desolazione.


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