Ged guardava da quelle finestre, mentre stava solo nella sua stanza nella torre, giorno dopo giorno, intontito e sofferente e gelido. Nella torre c’era sempre freddo, nonostante i tappeti e gli arazzi e le ricche vesti foderate di pelliccia e i grandi camini di marmo. Era freddo che penetrava nelle ossa, nel midollo, ed era impossibile scacciarlo. E nel cuore di Ged c’era anche una gelida vergogna che non si lasciava scacciare, quando pensava come aveva affrontato il nemico ed era stato sconfitto ed era fuggito. Nella sua mente si radunavano tutti i maestri di Roke, e tra loro c’era l’arcimago Gensher che aggrottava la fronte, e c’era anche Nemmerle, e anche Ogion, e perfino la strega che gli aveva insegnato il suo primo incantesimo: tutti lo fissavano, e lui sapeva che li aveva delusi. Si difendeva dicendo: — Se non fossi fuggito, l’ombra si sarebbe impossessata di me; aveva già tutta la forza di Skiorh, e parte della mia, e io non potevo combatterla: conosceva il mio nome. Ho dovuto fuggire. Un gebbeth-mago avrebbe un potere terribile per seminare male e rovine. Ho dovuto fuggire. — Ma nessuno di coloro che ascoltavano nella sua mente gli rispondeva. E lui guardava cadere la neve, rada e incessante, sulle terre desolate, e sentiva il freddo crescere dentro di sé, fino a quando gli pareva che non restasse in lui altra sensazione che una specie di stanchezza.
Perciò restò solo per molti giorni, chiuso nella sua infelicità. Quando scendeva dalla sua stanza, era taciturno e rigido. La bellezza della signora della fortezza lo confondeva; e in quella strana corte, così ricca e ordinata, si sentiva un capraio.
Lo lasciavano solo quando voleva restare solo; e quando non sopportava più di pensare e di guardar cadere la neve, spesso Serret s’incontrava con lui in una delle sale curvilinee ornate di arazzi e illuminate dal fuoco, ai piani inferiori della torre; e allora parlavano. Non c’era allegria, nella signora della fortezza: non rideva mai, benché sorridesse spesso; eppure riusciva con un sorriso a far sì che Ged si sentisse a suo agio. In sua compagnia, Ged cominciò a dimenticare la sofferenza e la vergogna. Ben presto presero l’abitudine d’incontrarsi tutti i giorni per conversare a lungo, tranquillamente, pigramente, un po’ in disparte dalle ancelle che accompagnavano sempre Serret, accanto al camino o alla finestra di qualche sala della torre.
Il vecchio signore stava quasi sempre nei suoi appartamenti; ne usciva la mattina per camminare avanti e indietro nei cortili interni della fortezza, sulla neve, come un vecchio incantatore che ha elaborato incantesimi per tutta la notte. Quando raggiungeva Ged e Serret a cena, stava in silenzio, levando talvolta lo sguardo verso la giovane moglie con espressione dura e concupiscente. Allora Ged provava pietà per lei. Era come una cerva bianca ingabbiata, un uccello candido con le ali tarpate, un anello d’argento al dito di un vecchio. Era un gioiello del tesoro di Benderesk. Quando il signore della fortezza li lasciava, Ged rimaneva con lei, cercando di alleviarne la solitudine, come lei aveva alleviato la sua.
— Cos’è la gemma che dà il nome alla vostra fortezza? — le chiese una sera, mentre si erano trattenuti a parlare davanti ai piatti d’oro vuoti e alle coppe d’oro, nell’immensa sala da pranzo rischiarata dalle candele.
— Non ne hai sentito parlare? È famosa.
— No. So soltanto che i signori di Osskil hanno famosi tesori.
— Ah, questa gemma li supera tutti. Vieni: ti piacerebbe vederla?
Serret sorrise con una sfumatura d’ironia e di sfida, come se avesse un po’ paura di ciò che faceva, e condusse il giovane per gli stretti corridoi alla base della torre, giù per le scale sotterranee, fino a una porta chiusa che Ged non aveva mai visto. L’aprì con una chiave d’argento, guardandolo con lo stesso sorriso, come se lo sfidasse ad accompagnarla. Oltre la porta c’erano un corto corridoio e una seconda porta, che Serret aprì con una chiave d’oro; e più oltre c’era una terza porta, che lei aprì con una delle Grandi Parole dello Scioglimento. Oltre la soglia, la candela mostrò una stanzetta simile a una segreta: il pavimento, le pareti e il soffitto erano di pietra scabra, e non c’erano mobili né decorazioni.
— La vedi? — chiese Serret.
Mentre Ged guardava intorno, il suo occhio di mago distinse una delle pietre del pavimento. Era ruvida e umida come le altre, una pesante e informe pietra da lastricato: eppure ne sentiva il potere come se gli parlasse ad alta voce. Il respiro gli si mozzò in gola, e per un momento lo invase un malessere. Era la prima pietra della torre. Quello era il luogo centrale, ed era freddo, molto freddo: nulla avrebbe mai potuto scaldare quella piccola stanza. Era una cosa antichissima: uno spirito vecchio e terribile era imprigionato in quel blocco di pietra. Ged non rispose a Serret, ma restò immobile; e dopo un po’, lanciandogli una rapida occhiata, lei additò la pietra. — Quello è il Terrenon. Ti sorprende che teniamo una gemma tanto preziosa chiusa nella nostra cripta più profonda? Ged non rispose neppure questa volta: taceva, guardingo. Sembrava quasi che Serret volesse metterlo alla prova; ma lui pensava che non avesse idea della natura della pietra, se ne parlava con tanta leggerezza: non la conosceva abbastanza da averne paura. — Parlami dei suoi poteri — disse infine Ged.
— Fu creato prima che Segoy traesse le isole del mondo dal mare aperto. Fu creato quando fu creato il mondo, e durerà fino a che il mondo avrà fine. Il tempo non è nulla per il Terrenon. Se vi posi una mano e formuli una domanda, ti risponderà, secondo il potere che è in te. Ha una voce, se sai ascoltare. Ti parlerà delle cose che furono e sono e saranno. Ha parlato della tua venuta molto tempo prima che giungessi in questa terra. Vuoi fargli una domanda, ora?
— No.
— Ti risponderà.
— Non ci sono domande che io voglia fargli.
— Potrebbe dirti — osservò Serret con voce sommessa, — come sconfiggerai il tuo nemico.
Ged restò muto.
— Hai paura della pietra? — chiese lei, incredula; e lui rispose: — Sì.
Nel freddo mortale e nel silenzio della stanza, cinta da muri e muri d’incantesimi e di pietra, nella luce della candela, Serret lo guardò di nuovo con gli occhi lucenti. — Sparviero — disse, — tu non hai paura.
— Ma non parlerò con quello spirito — replicò Ged, e guardandola apertamente le disse con gravità e franchezza: — Mia signora, quello spirito è sigillato in una pietra, e la pietra è imprigionata da incantesimi vincolanti e da incantesimi accecanti e da sortilegi di difesa e dai triplici muri della fortezza in una terra desolata, non perché sia preziosa ma perché può compiere grandi mali. Non so che cosa te ne abbiano detto, quando sei venuta qui. Ma tu che sei giovane e dolce non dovresti mai toccarla, e neppure guardarla. Non ti porterà bene.
— L’ho toccata. Le ho parlato e l’ho sentita parlare. Non mi fa nessun male.
Serret si voltò: uscirono superando le porte e i corridoi, fino a quando, nella luce delle torce dell’ampia scalinata, lei spense la candela. Si separarono con poche parole.
Quella notte Ged dormì poco. Non era il pensiero dell’ombra, a tenerlo sveglio: anzi, quel pensiero era quasi scacciato dalla sua mente dall’immagine ricorrente della pietra che costituiva il fondamento della torre, e dalla visione del volto di Serret, fulgido e adombrato nella luce della candela, levato verso di lui. Sentiva ancora quegli occhi posati su di lui, e cercava di comprendere quale espressione vi era apparsa quando aveva rifiutato di toccare la pietra: era stato sdegno o dolore? Quando infine si sdraiò per dormire, le seriche lenzuola erano fredde come il ghiaccio, e lui si svegliò spesso nell’oscurità pensando alla pietra e agli occhi di Serret.
Il giorno dopo la trovò nella sala curvilinea di marmo grigio, illuminata dal sole che declinava verso occidente, dove trascorreva spesso ì pomeriggi giocando o tessendo con le sue ancelle. Le disse: — Dama Serret, ti ho offesa. Me ne dispiace.