Emise un suono strozzato e si ritirò adagio.
Si rivolse a Duefiori: — È ridicolo. Le rocce non possono volare. È una cosa risaputa.
— Forse lo farebbero se potessero — osservò l’ometto. — Forse questa qui ha scoperto come si fa.
— Speriamo soltanto che non se lo scordi — fu il commento di Scuotivento. Si rannicchiò nella sua tunica fradicia e contemplò con aria cupa le nuvole intorno a lui. Immaginava che da qualche parte ci fosse gente che teneva la sua vita sotto controllo. Persone che si alzavano al mattino e andavano a letto la sera con la ragionevole certezza di non precipitare dall’Orlo del mondo o di essere attaccate da lunatici o di risvegliarsi sopra un masso con idee di grandezza. Ricordava vagamente che una volta anche lui conduceva quel genere di vita.
Annusò l’aria. Dalla roccia veniva un odore di frittura. L’odore, che pareva provenire da una certa distanza più avanti, costituiva un forte richiamo per il suo stomaco.
— Tu senti un odore? — domandò.
— Credo che sia bacon — rispose Duefiori.
— Spero che sia bacon, perché me lo mangerò. — Scuotivento si mise in piedi sul masso ondeggiante e avanzò trotterellando dentro la cortina di nuvole, cercando di vedere qualcosa in quella massa umida.
Vicino al bordo, sulla parte anteriore del masso, un piccolo druido sedeva a gambe incrociate davanti a un focherello. La testa coperta da un quadrato di tela impermeabilizzata, annodato sotto il mento, sfrugolava un tocco di bacon in una padella con un falcetto ornamentale.
— Ehm — fece Scuotivento. Il druido alzò gli occhi e lasciò cadere la padella nel fuoco. Balzò in piedi e brandì il falcetto con aria aggressiva, o almeno aggressiva quanto può apparirlo uno acconciato in una lunga camicia da notte bianca e bagnata e un copricapo gocciolante.
— Vi avverto, non sarò tenero con dei dirottatori — li minacciò e starnutì violentemente.
— Ti aiuteremo — disse Scuotivento con un’occhiata piena di desiderio al bacon che si bruciava. A quelle parole il druido sembrò sconcertato. Con sorpresa del mago, era molto giovane. Scuotivento supponeva che, in teoria, dovessero esistere cose quali giovani druidi. Solo che lui non se li era mai immaginati.
— Non state tentando di rubare il masso? — domandò il druido e abbassò di un millimetro il suo falcetto.
— Non sapevo nemmeno che i massi si potessero rubare — disse stancamente Scuotivento.
— Scusami — intervenne in tono cortese Duefiori. — Mi pare che la tua colazione vada a fuoco.
Il druido abbassò gli occhi e prese senza molto successo a battere con la mano le fiamme. Il mago si precipitò ad aiutarlo, ci furono molto fumo, cenere e confusione. Ma alla fine riuscirono a salvare qualche pezzetto di bacon sbruciacchiato. Un trionfo per i due, che riuscì più utile di un intero trattato di diplomazia.
— Come siete arrivati qui? — chiese il druido. — Siamo a più di quindicimila metri di altezza, a meno che non mi sia sbagliato di nuovo con i calcoli.
Il mago cercò di non pensare all’altezza. — Possiamo dire di essere capitati qui mentre passavamo — spiegò.
— Durante il tragitto verso terra — aggiunse Duefiori.
— Solo che questa tua roccia ha interrotto la nostra caduta — disse ancora Scuotivento (con la schiena che protestava). — Grazie — aggiunse.
— Credevo che ci fossimo imbattuti in una turbolenza, poco fa — disse il druido che, come risultò, si chiamava Belafon. — Dovevate essere voi. — Rabbrividì. — Ormai deve essere mattina. Al diavolo le regole. Adesso ci solleviamo. Reggetevi.
— A che cosa? — chiese Scuotivento.
— Be’, mostrate soltanto la vostra riluttanza a cadere — rispose Belafon. Estrasse dalla sua tunica un grosso pendolo di ferro e lo fece oscillare sopra il fuoco in una serie di movimenti sconcertanti.
Intorno a loro le nubi schioccavano, ci fu un orribile senso di pesantezza e d’improvviso il masso emerse alla luce del sole.
Proseguì in linea orizzontale qualche centimetro al di sopra delle nuvole, in un cielo freddo ma di un limpido azzurro. Le nuvole che la notte scorsa erano sembrate glacialmente distanti e orribilmente viscide quella mattina, erano adesso un lanoso tappeto bianco, che si stendeva in tutte le direzioni, dal quale spuntavano come isole i picchi delle montagne. Il vento suscitato dal passaggio del masso scolpiva le nubi in mulinelli passeggeri. Il masso…
Era lungo circa dieci metri e largo tre, e azzurrognolo.
— Che panorama straordinario — esclamò Duefiori con gli occhi che gli brillavano.
— Uhm, cos’è che ci sostiene in aria? — chiese il mago.
— La persuasione — rispose Belafon e intanto si strizzava l’orlo della tunica.
— Ah — fu il saggio commento di Scuotivento.
— Mantenerli in aria è facile — affermò il druido. Alzò il pollice e socchiudendo gli occhi guardò, a braccio teso, una montagna lontana. — La parte difficile è l’atterraggio.
— Non lo penserai davvero, no? — disse Duefiori.
— La persuasione è ciò che tiene insieme l’intero universo — asserì Belafon. — Non è bene affermare che è tutto opera della magia.
Scuotivento diede per caso un’occhiata attraverso lo strato di nubi e vide in basso a grande distanza un paesaggio coperto di neve. Sapeva di essere in presenza di un pazzo, ma a questo era abituato. Se ascoltare quello stesso pazzo voleva dire restare in equilibrio lassù, lui era tutto orecchie.
Belafon si sedette con i piedi dondolanti fuori dall’orlo della roccia.
— Ascolta, non ti preoccupare — gli consigliò. — Se continui a pensare che questo masso non dovrebbe volare, lui potrebbe sentirti e persuadersene. E tu ti ritroveresti ad avere ragione, okay? È evidente che tu non sei aggiornato sul pensiero moderno.
— Così sembra — convenne debolmente il mago. Si sforzava di non pensare alle rocce sul terreno. Ma alle rocce che volteggiavano come le rondini, sorvolavano a balzi i paesaggi nella pura gioia della levità, sfrecciavano su nel cielo in…
Ma si rendeva conto con orrore che la sua immaginazione non era un granché.
I druidi del Disco erano fieri del loro approccio progressista alla scoperta dei misteri dell’Universo. Naturalmente, come tutti i druidi, essi credevano nell’essenziale unità di ogni forma di vita, nel potere curativo delle piante, nel ritmo naturale delle stagioni. E nel bruciare vivo chiunque non si avvicinasse a tutto questo nella giusta disposizione d’animo. Ma essi avevano anche riflettuto a lungo sull’origine stessa della creazione e avevano formulato la teoria seguente:
L’universo, sostenevano, dipendeva per il suo funzionamento dall’equilibrio di quattro forze da loro identificate come incanto, persuasione, incertezza e audacia priva di scrupoli.
Era così che il sole e la luna descrivevano un’orbita intorno al Disco perché erano persuasi di non precipitare giù, ma non volavano via a causa dell’incertezza. L’incanto faceva sì che gli alberi crescessero e l’audacia li teneva in piedi. E così via.
Certi druidi insinuavano che c’erano delle pecche in quella teoria. Ma i druidi più autorevoli spiegavano molto chiaramente che c’era spazio per una discussione approfondita, per i colpi e le parate di un eccitante dibattito scientifico. E che fondamentalmente la teoria stava in cima al falò del prossimo solstizio.
— Ah, così tu sei un astronomo? — chiese Duefiori.
— Oh no — rispose Belafon, mentre il masso scivolava attorno alla curva di una montagna. — Sono un esperto di hardware dei computer.
— Che cos’è l’hardware dei computer?
— Be’, è questo. — Il druido batté sulla roccia con il piede calzato da un sandalo. — O comunque, questo ne è una parte. È un ricambio. E io vado a consegnarlo. Stanno avendo delle noie con i grandi circoli sulle Pianure del Vortice. O così affermano loro. Vorrei avere una torcia di bronzo per ogni utente che non ha letto il manuale. — Scrollò le spalle.