— Ma io… — cominciò il mago e poi ci rinunciò. "So com’è fatta una cipolla" pensò "un affare bianco arrotondato e dalla cima gli spunta un pezzetto verde; dovrebbe essere facilmente riconoscibile."
— Andrò a dare un’occhiata, va bene? — disse.
— Scì.
— Laggiù, dove il sottobosco è più fitto e ombroso?
— Ottima idea, scì.
— Vuoi dire dove ci sono tutte quelle forre profonde, ecc.?
— Un poshto ideale, direi.
— Già, ne ero sicuro — fu l’amaro commento del mago. Si avviò e intanto si chiedeva come si facesse ad attrarre le cipolle. Dopo tutto, benché uno le vedesse pendere a grappoli sulle bancarelle del mercato, forse i contadini o altri usano cani da cipolle o cantano delle canzoni per attirarle.
In cielo apparivano le prime stelle mentre lui si mise a frugare a casaccio tra le foglie e l’erba. Funghi luminosi, sgradevolmente simili a certi organi e con l’aspetto di protesi coniugali a uso degli gnomi, si spappolavano sotto i suoi piedi. Piccole creature volanti lo pungevano. Altre, per fortuna invisibili, saltellavano o scivolavano sotto i cespugli gracchiando come volessero rimproverarlo.
— Cipolle? — sussurrò Scuotivento. — Ci sono delle cipolle qui?
Una voce accanto a lui gli rispose: — Ce n’è una buona quantità sotto quel vecchio tasso.
— Ah, bene.
Seguì un lungo silenzio, interrotto soltanto dal ronzio delle zanzare intorno alle sue orecchie.
Scuotivento era rimasto immobile, senza nemmeno muovere gli occhi.
Alla fine disse: — Scusami.
— Sì?
— Oual è il tasso?
— Quello piccolo e contorto con gli aghi piccoli verde scuro.
— Ah, sì, lo vedo. Grazie ancora.
Ma non si mosse. Dopo un po’, la voce riprese in tono cordiale: — C’è altro che posso fare per te?
— Tu non sei un albero, vero? — chiese il mago, sempre guardando dritto davanti a sé.
— Non dire sciocchezze. Gli alberi non sanno parlare.
— Scusami. È solo che di recente ho incontrato qualche difficoltà con gli alberi, sai com’è.
— In verità no, io sono una roccia.
Il tono di voce di Scuotivento cambiò appena. — Bene, bene — disse adagio. — Bene, allora, vado a prendere quelle cipolle.
— Goditele.
Il mago avanzò con andatura cauta e dignitosa, scorse un ciuffo di cose bianche e filamentose confuse nel sottobosco, le sradicò con attenzione e si voltò.
Un po’ più in là c’era una roccia. Ma c’erano rocce dappertutto, in quel luogo affioravano alla superficie le ossa stesse del Disco.
Scuotivento fissò ben bene l’albero di tasso, nel caso stesse parlando. Ma quello, essendo una pianta solitaria, non aveva sentito parlare di Scuotivento, il salvatore degli alberi, e in ogni caso dormiva.
— Se eri tu, Duefiori, lo sapevo benissimo che eri tu — disse il mago. La sua voce risuonò d’improvviso chiara e molto solitaria nella penombra che scendeva.
Si rammentò il solo fatto che conosceva con sicurezza a proposito dei troll. Il fatto che, esposti alla luce del sole, si tramutavano in pietra. Per tale ragione, chi impiegava ì troll per lavorare di giorno, doveva spendere una fortuna in creme filtranti.
Ma a ripensarci, non si diceva da nessuna parte cosa gli accadeva quando il sole tramontava di nuovo…
L’ultima parvenza di luce si ritirò dal paesaggio. E sembrò a un tratto che tutto intorno ci fossero tantissime rocce.
— Ci mette un sacco di tempo con quelle cipolle — osservò Duefiori. — Pensi che faremmo meglio ad andare a cercarlo?
— I maghi scianno badare a sce stessi — affermò Cohen. — Non preoccuparti. — Bethan gli stava tagliando le unghie dei piedi.
— In realtà, lui non è un mago molto bravo — disse Duefiori avvicinandosi al fuoco. — Non glielo direi in faccia, ma… — si chinò verso Cohen — non l’ho mai visto compiere davvero nessuna magia.
— Bene, dammi l’altro piede — disse Bethan.
— Scei molto gentile.
— Avresti dei piedi niente male, se soltanto ne avessi cura.
— Non poscio chinarmi come usciavo fare — disse Cohen con aria abbattuta. — Scerto, nel mio mestiere non sci incontrano molti chiropodishti. Buffo. Ho conosciuto una quantità di sciacerdoti dei scerpenti, di dei folli, di scignori della guerra, mai un chiropodishta. Sciuppongo che non shtarebbe bene… Cohen Contro i Chiropodishti.
— O Cohen E I Chiropraticanti del Destino — suggerì la fanciulla. L’eroe ridacchiò.
— O Cohen E I Dentisti Folli — rise Duefiori.
Cohen serrò le labbra.
— Coscia sc’è di tanto divertente? — domandò in tono minaccioso.
— Oh, ehm, be’ — farfugliò l’ometto. — I tuoi denti, capisci…
— Che cosc’hanno? — scattò l’altro.
Duefiori deglutì. — Non posso fare a meno di notare che, ehm, non sono nella stessa collocazione geografica della tua bocca.
L’eroe gli lanciò un’occhiataccia. Poi si curvò e si fece molto piccolo e vecchio.
— È vero, naturalmente — borbottò. — Non ti biascimo. È duro escere un eroe scenza denti. Non importa che altro sci perde, sci può tirare avanti anche con un occhio sciolo, ma bashta moshtrare una bocca piena di gengive e nesciuno ha più rishpetto.
— Io sì — dichiarò lealmente Bethan.
— Perché non te ne procuri degli altri? — gli chiese Duefiori.
— Scì, be’, se fosci un pescecane o altro, scì, me ne crescerebbero ancora — replicò sarcastico il vecchio eroe.
— Oh, no, li compri — ribatté Duefiori. — Guarda, te lo mostro. Ehm, Bethan, ti dispiacerebbe guardare da un’altra parte? — Attese che lei si fosse voltata e poi si portò la mano alla bocca.
— Vedi?
La ragazza sentì Cohen trattenere il fiato.
— Tu sei capasce di levarti i tuoi?
— Oh, scì. Ne ho diversce scerie. Scusciami… — Sembrò inghiottire e poi continuò in una voce più normale. — È molto conveniente, naturalmente.
La voce di Cohen era piena di timore reverenziale, per quanto sia possibile senza denti, il che è più o meno lo stesso che se uno i denti ce l’ha. Solo che è di minor effetto.
— Fammi pensciare — disse Cohen. — Quando ti dolgono, te li togli e lasci che sce la sbrighino, è cosci? Gli dai una lezione a quei piccoli rompishcatole e vedi quanto gli piasce di scioffrire tutti da scioli.
— Non è proprio esatto — rispose cauto Duefiori. — Loro non sono i miei, semplicemente mi appartengono.
— Ti metti in bocca i denti di un’altra persciona?
— No, qualcuno li fa e, da dove vengo io, un sacco di gente li porta. È una…
Ma la conferenza di Duefiori sulle protesi dentarie restò in sospeso, perché qualcuno lo colpì.
La piccola luna del Disco viaggiava laboriosa nel cielo. Lei brillava di luce propria, a causa dei limitati e piuttosto inefficienti arrangiamenti astronomici del Creatore. Inoltre era affollata da un assortimento di dee lunari le quali, in quel particolare momento, non prestavano molta attenzione a quanto succedeva sul Disco, ma si occupavano di una petizione riguardante i Giganti del Ghiaccio.
Se avessero guardato in basso, avrebbero visto Scuotivento parlare concitato con un ammasso di rocce.
Nel multiverso i troll sono le più antiche forme di vita e risalgono al primo tentativo di dare il via a tutta la faccenda della vita senza tutto quel protoplasma molliccio. I troll vivono a lungo, sono ibernati durante l’estate e dormono durante il giorno, dato che patiscono il caldo che li intorpidisce. La loro geologia è affascinante. Si potrebbe parlare di tribologia, degli effetti semiconduttori del silicone impuro, dei troll giganti della preistoria che componevano quasi tutte le maggiori catene montuose del Disco e che causerebbero dei problemi molto gravi se mai si risvegliassero. Ma la nuda verità è che, senza il possente e diffuso campo magico del Disco, i troll si sarebbero estinti molto tempo fa.
Nel Disco non era mai stata inventata la psichiatria. Nessuno mai aveva messo una macchia d’inchiostro sotto il naso di Scuotivento per vedere se aveva dei giocattoli rimasti in soffitta. Pertanto il solo modo in cui lui sarebbe stato capace di descrivere le rocce che tornavano a essere dei troll, era evocare vagamente come si formano a un tratto delle immagini quando si guarda il fuoco o le nuvole.