Comunque la stalla dove passarono la notte era calda, con un vivo tepore di vacche, capre e galline, ammassate tutte assieme in una compagnia sbuffante, odorosa e pacifica. Mentre Estrel si tratteneva ancora a parlare con gli ospiti nella capanna principale, Falk si recò nella stalla e si mise a suo agio. Salì sul fienile e col fieno costruì un ricchissimo letto a due piazze e vi stese i sacchi a pelo. Quando Estrel giunse era già mezzo addormentato, ma riuscì a svegliarsi quel tanto da far notare: — Sono contento che tu sia arrivata… Ci nascondono qualcosa, ma non so che cosa. C'è puzza di guai.
— E anche d'altro…
Estrel non si era mai spinta così avanti con i giochi di parole, e Falk le lanciò uno sguardo sorpreso. — Sei contenta di avvicinarti alla Città, vero? — le chiese. — Vorrei esserlo anch'io.
— E perché non dovrei? Spero di trovarci la mia gente; se non è possibile, i Signori mi aiuteranno. E anche tu ci troverai quello che vai cercando, e ti verrà reso quanto ti spetta.
— Quanto mi spetta? Pensavo che mi credessi un Cancellato.
— Tu? No di certo! Non crederai, Falk, che siano stati gli Shing a immischiarsi con la tua mente? L'hai già detto una volta, laggiù nella pianura, e in quell'occasione non avevo capito bene. Come puoi crederti un Cancellato, o un comune mortale? Tu non sei un Terrestre!
Non aveva mai parlato così fuori dei denti. Le sue parole lo rincuorarono, perché rispondevano alle sue speranze, ma al tempo stesso lo impensierirono un poco; da tanto, ormai, se ne stava zitta e agitata. Vide però che dal collo le pendeva qualcosa, una cordicella di cuoio. — Ti hanno dato un amuleto. — Ecco da dove nasceva la sua fiducia.
— Sì — disse guardandosi con soddisfazione il pendaglio. — Abbiamo la stessa fede. Ora ci andrà tutto bene.
Sorrise un poco alla sua superstizione, contento però che le desse sicurezza. Nell'addormentarsi la sentiva sveglia, lunga distesa con gli occhi fissi nel buio pieno dell'odore e del respiro sommesso e della presenza degli animali. Prima dell'alba quando il gallo cantò, si levò a sedere e la sentì sussurrare preghiere all'amuleto nella lingua che lui non capiva.
Si misero in cammino prendendo un viottolo che piegava a sud dei picchi tempestosi. Restava da valicare l'alto baluardo di una montagna, e per quattro giorni salirono e salirono finché l'aria divenne sottile e ghiacciata, il cielo blu scuro e il sole di aprile splendette abbagliante sulle nubi che radevano i prati della lontana vallata. Poi, raggiunta la cima, il cielo si oscurò ancor più e cadde la neve sulle nude rocce, coprendo di bianco gli ampi pendii pietrosi, rossi e grigi. Sul passo c'era una capanna per viandanti; vi trovarono rifugio assieme ai muli finché non cessò di nevicare e poterono riprendere la discesa.
— Ora il cammino si fa più facile — disse Estrel, girandosi verso di lui da sopra la groppa ballonzolante del suo mulo; egli rispose con un sorriso non privo di una sfumatura di timore, che si accentuava via via che procedevano scendendo verso Es Toch.
Si avvicinarono, si avvicinarono, e il sentiero si allargò fino a diventare una strada; incontrarono capanne, fattorie, case. Videro poche persone perché il freddo e la pioggia tenevano la gente tappata in casa. I due viaggiatori camminavano lentamente nella via solitaria, sotto la pioggia. Al terzo mattino, da dietro la cima del monte scorse un'alba splendente e dopo una cavalcata di un paio d'ore Falk fermò il mulo, guardando Estrel con aria interrogativa.
— Cosa c'è, Falk?
— Siamo arrivati… è Es Toch, vero?
Il terreno si era fatto pianeggiante, benché l'orizzonte fosse chiuso da cime distanti e i pascoli e i campi che avevano attraversato avessero fatto posto a case, case e ancora case. C'erano capanne, casupole, baracche, poderi, osterie, negozi dove si producevano e vendevano le merci, e ovunque bambini, gente sulle superstrade, gente sulle provinciali, gente a piedi, a cavallo, su muli, su slitte, che andava e veniva: folla sì, ma rada, fiacca, indaffarata, sporca, paurosa e vivida sotto il cielo scuro e limpido delle mattine in montagna.
— Ci vogliono un paio di miglia per Es Toch.
— E cos'è allora questa città?
— È la periferia.
Falk si guardava tutt'attorno, confuso ed eccitato. La via che aveva percorso per così lungo tratto a partire dalla casa situata nella Foresta Orientale era diventata una stradina, giunta fin troppo presto al termine. A cavalcioni dei muli nel bel mezzo della strada, la gente li guardava, ma nessuno si fermava, nessuno rivolgeva loro la parola. Le donne giravano addirittura il viso dall'altra parte. Solo dei bimbi cenciosi li stavano a guardare, o li indicavano con le loro urla, poi fuggivano via, svanendo su per un viottolo ingombro di luridume o dietro un covone. Non era proprio quello che Falk si aspettava; eppure cosa s'era mai aspettato? — Non sapevo che al mondo ci fosse tanta gente — disse infine. — Pullulano attorno agli Shing come le mosche attorno al letame.
— Le larve delle mosche prosperano nel letame — osservò Estrel asciutta. Poi, con un lungo sguardo, tese la mano e la posò sulla sua con tocco leggero. — Questi sono i relitti, i parassiti, la feccia che si raccoglie fuori delle mura. Entriamo in città, nella Città vera. Abbiamo fatto tanta strada per vederla…
Spronarono le loro cavalcature; ben presto videro, alti sopra i tetti delle catapecchie, i muri di torri verdi senza finestre, che si stagliavano nitide nel sole.
Il cuore di Falk batteva disordinatamente; notò poi che Estrel parlò all'amuleto che le avevano dato a Besdio.
— Non possiamo proseguire sui muli all'interno della città — disse. — Lasciamoli qui. — Si fermarono a una stalla pubblica sgangherata; in tono suadente Estrel rivolse qualche parola nella lingua occidentale all'uomo che teneva quel posto, e quando Falk le domandò cosa mai gli avesse chiesto rispose: — Di tenersi i muli in cambio.
— In cambio?
— Se non paghiamo il mantenimento, se li terrà lui. Non hai denaro, vero?
— No — ammise Falk umilmente. Non solo non aveva denaro, ma non ne aveva mai visto; il Galaktika poi aveva un termine per indicarlo, mentre nel dialetto della Foresta mancava assolutamente.
La stalla era l'ultimo edificio ai bordi di un campo pieno di macerie e rifiuti che separava quella città cadente da un muro lungo e alto di blocchi di granito. A Es Toch c'era un'unica entrala per i pedoni. Il cancello era segnato da alti pilastri conici, e su quello di sinistra era incisa un'iscrizione in Galaktika: RISPETTO PER LA VITA. Su quello di destra, invece, c'era un'iscrizione più lunga in una lingua che Falk non aveva mai visto. Nessun traffico al cancello, né guardie.
— Il pilastro della Menzogna e quello del Segreto — disse ad alta voce mentre li attraversava, rifiutando di farsi sopraffare dal timore; ma poi, quando entrò in Es Toch e le gettò un'occhiata, rimase zitto e non disse più niente.
La Città dei Signori della Terra era costruita sui margini di una gola, una tremenda spaccatura tra i monti, stretta, fantastica; le nere pareti striate di verde strapiombavano orribili per mezzo miglio, fino alla laminata striscia argentea di un fiume nelle ombrose profondità. Sui bordi del precipizio si innalzavano le torri della città, quasi sollevate da terra e collegate attraverso l'abisso da ponti sottili. A ridosso di una curva vertiginosa della gola andavano a morire torri, ponti e strade e si richiudeva il muro della città. Nell'abisso sfrecciavano elicotteri dalle diafane pale, e slitte guizzavano nelle vie appena intraviste e sui ponti leggeri. Pareva che il sole, non ancora a perpendicolo sui massicci picchi orientali, non proiettasse ombre; le grandi torri verdi splendevano di luce come fossero traslucide.
— Vieni — disse Estrel che lo precedeva di poco, con gli occhi brillanti — non c'è nulla da temere qui, Falk.
La seguì. Nella strada che scendeva tra basse costruzioni verso le torri rasenti il baratro non c'era anima viva. Si girò anche all'indietro a guardare il cancello, ma non vide più l'apertura tra i pilastri.