— Dove andiamo?

— So di un posto, una casa dove si ferma la mia gente. — Gli prese il braccio per la prima volta in tutto il cammino percorso assieme, e avanzarono per la lunga via a zigzag, lei con gli occhi bassi e aggrappata a lui. Adesso, avvicinandosi al cuore della città, le costruzioni di destra si ergevano tanto alte da non distinguerne bene la sommità, mentre a sinistra, senza muri né parapetti, si spalancava sotto di loro l'abisso vertiginoso pieno d'ombre, nera fenditura tra le torri luminose appollaiate ai suoi bordi.

— E se qui avessimo bisogno di denaro…

— Ci penseranno loro.

Attorno passava gente su slitte, vestita in modo strano quanto vivace; le piazzole d'atterraggio sugli edifici dalle pareti lisce sciamavano d'elicotteri. Sopra la gola rombò un aeromobile, alzandosi in quota.

— Sono tutti… Shing?

— Qualcuno.

Inconsciamente aveva posato la mano libera sul laser. Estrel, senza nemmeno guardarlo, ma sorridendogli leggermente, disse: — Non adoperare la pistola qui, Falk. Sei venuto per riacquistare la memoria, non per perderla.

— Dove stiamo andando, Estrel?

— Qui.

— Questo? Ma è un palazzo.

I luminosi muri verdi torreggiavano alti verso il cielo, senza finestre, senza segni. Di fronte a loro si stagliava una porta quadrata, aperta.

— Qui mi conoscono. Non aver paura. Vieni con me.

Lo teneva sempre per il braccio. Egli esitava. Girandosi a guardare la strada vide venire molti uomini, i primi che vedeva a piedi. Si avvicinavano a loro lentamente, tenendoli d'occhio. Quella vista lo spaventò ed entrò con Estrel nell'edificio, attraverso portali automatici che scorrevano di lato al loro approssimarsi. Appena dentro, colto dall'idea di aver formulato un giudizio erroneo, di aver commesso un orribile errore, si fermò. — Che posto è questo? Estrel…

Era un salone altissimo, invaso da una cupa luce verdastra e pallida come in una grotta subacquea; si vedevano porte e corridoi donde si avvicinavano uomini, correndogli incontro. Estrel s'era staccata da lui. Preso dal panico si volse verso le porte: ma adesso erano chiuse. Non avevano maniglie. Pallide figure d'uomini irruppero nel salone, correndo verso di lui e gridando. Si appoggiò con le spalle alle porte chiuse e cercò il laser. Non c'era più. Era nella mano di Estrel. Stava dietro gli uomini che circondavano Falk, quando lui cercò di irrompere fra loro fu afferrato, dovette lottare, fu percosso; allora per un attimo udì un suono che non aveva mai sentito prima: la risata di lei.

Un suono sgradevole risuonò agli orecchi di Falk; un sapore di metallo gli riempì la bocca. La sua testa ondeggiò quando provò ad alzarla, gli occhi non riuscivano a vedere distintamente, e non pareva libero di muoversi. Finalmente si accorse che si stava destando da uno stato d'incoscienza, e pensò che se non si poteva muovere era perché lo avevano ferito o drogato. Poi invece si accorse che i polsi erano ammanettati con una corta catena, e così le caviglie. Ma l'ondeggiare del suo cervello peggiorò. Ora una voce profonda gli rimbombava negli orecchi, ripetendo instancabilmente la stessa parola: ramarren-ramarren-ramarren. Lottò, gridò, cercando di liberarsi da quella voce rombante che lo riempiva di terrore. Lampi gli accecarono gli occhi e attraverso il suono che gli rimbombava nella testa sentì qualcuno urlare con una voce che era la sua: — Non sono…

Quanto ritornò in sé era tutto profondamente tranquillo. La testa gli doleva, e non poteva ancora vedere distintamente; ma alle braccia e alle gambe non c'erano più manette, se mai c'erano state, e sapeva che era protetto, tenuto al riparo, curato. Si sapeva chi era e lo trattavano con riguardo. I suoi stavano venendo a cercarlo; qui era al sicuro, curato premurosamente, lo amavano e non doveva fare altro che dormire e riposare, dormire e riposare, mentre il dolce profondo silenzio gli mormorava teneramente nella testa marren-marren-marren…

Si svegliò. Gli ci volle non poco tempo, ma alla fine si svegliò e riuscì a sedersi. Per vincere il senso di vertigine che il movimento gli aveva causato per un po' dovette tenere la testa dolorante tra le braccia; dapprima fu consapevole soltanto di essere seduto sul pavimento di una stanza, un pavimento all'apparenza caldo e flessibile, quasi morbido, come il fianco di una bestia enorme. Poi alzò la testa, mise a fuoco lo sguardo e si guardò attorno.

Era solo, in mezzo a una stanza così irreale che rintuzzò lo stordimento. Nessun mobile. Muri, pavimento, soffitto erano tutti dello stesso materiale traslucido che pareva soffice e ondeggiante come molti strati di pallidi veli verdi, ma al tocco era resistente e levigato. Gli strani intagli e increspature e pieghe che formavano ornamenti per tutto il pavimento non risultavano affatto al tocco della mano; erano disegni ingannevoli, oppure stavano sotto una superficie trasparente e liscia. Gli angoli dove si incontravano le pareti erano svisati dalle illusone mistificazioni ottiche di decorazioni incrociate e pseudoparallele; verificare se gli angoli fossero retti richiedeva uno sforzo di volontà, che forse era uno sforzo di auto-inganno, perché, dopo tutto, potevano anche essere retti. Ma nessuna di queste disorientanti sottigliezze delle decorazioni lo confondeva quanto il fatto che la stanza fosse tutta traslucida. Vagamente, e con l'effetto di guardare nella profondità di un pozzo verdissimo, sotto di lui poteva intravedere un'altra stanza. Sopra di lui una chiazza di luce che poteva essere la luna, confusa e con una sfumatura verde per uno o più soffitti intermedi. Attraverso una delle pareti della stanza erano chiaramente visibili strisce e chiazze lucenti, e riusciva a individuare il movimento delle luci degli elicotteri e degli aerei. Attraverso le altre tre pareti queste luci esterne erano molto più fievoli, offuscate dalla velatura di altre pareti, corridoi, stanze. In queste stanze si muovevano forme. Riusciva a vederle, ma era impossibile identificarle; sembianze, abiti, colori, profili, tutto diventava indistinto. Da qualche parte nelle profondità verdi una chiazza d'ombra improvvisamente prese a diminuire, si fece più verde, più pallida svanendo poi nell'indistinto della vaghezza. Visibilità senza discriminazione, solitudine senza isolamento. Era straordinariamente bello questo velato bagliore di luci e forme attraverso piani di verde appena abbozzati; e straordinariamente inquietante.

A un tratto Falk scorse un lampo di movimento in una macchia più chiara della parete vicina. Si girò rapidamente e con un tremito di terrore vide infine qualcosa di vivido, distinto: un viso, un volto segnato, selvaggio, stupefatto, in cui c'erano due occhi gialli disumani.

— Uno Shing — mormorò con attonito stupore. Il viso motteggiò, le terribili labbra aprendosi senza suono. Uno Shing, ed egli vide che era il riflesso del suo viso.

Si alzò rigidamente, andò allo specchio, vi passò una mano sopra per assicurarsi. Era uno specchio, mezzo nascosto in una cornice a rilievo dipinta in modo che apparisse più piatta di quanto non fosse in realtà.

Se ne distolse al suono di una voce. Dall'altra parte della stanza, non del tutto chiara nella luce tenue e uniforme proveniente da fonti nascoste, ma abbastanza splendenti, si ergeva una figura. Non si vedeva nessuna porta, ma comunque era entrato un uomo, che stava lì a guardarlo: un uomo altissimo, con una cappa bianca molto splendente o un mantello che gli pendeva dalle ampie spalle, capelli bianchi, occhi chiari, penetranti. L'uomo parlò. Aveva una voce profonda e gentile. — Sei il benvenuto qui, Falk. Ti attendiamo da tempo, ti abbiamo guidato a lungo e abbiamo vegliato su di te. — La luce della stanza diventava sempre più vivida, una radiosità chiara, sempre più intensa. Nella voce profonda si poteva sentire una nota eccitata. — Caccia la paura e sii il benvenuto tra noi, o Messaggero. Il cammino più scuro sta dietro di te e i tuoi piedi hanno ora imboccato la via che ti conduce a casa! — Lo splendore crebbe fino a che abbagliò gli occhi di Falk; dovette chiuderli, poi chiuderli ancora, e quando guardò davanti a sé a occhi socchiusi, l'uomo era sparito.


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