Ramarren ascoltava attento. La storia lo colpì, e non fece nessun tentativo di nascondere i propri sentimenti; ma provò anche un certo disagio o sospetto che riuscì a nascondere. L'uomo gli si era rivolto, anche se per poco, in telepatia, dandogli così l'onda di sintonizzazione. Poi Abundibot aveva interrotto i messaggi telepatici ritraendosi in una difesa pronta, per quanto imperfetta. Ramarren, finemente sensibile e accuratamente addestrato, ricevette vaghe impressioni empatiche, così discrepanti da ciò che l'uomo aveva detto, da far pensare alla demenza, o alla menzogna. Oppure era lui a trovarsi così desintonizzato da se stesso, cosa probabile dopo la paraipnosi, da non potersi fidare delle sue sensazioni empatiche?

— Per quanto…? — chiese infine, fissando per un momento gli occhi in quelli alieni.

— Sei anni, misurazione Terraniana, prech Ramarren.

L'anno Terraniano aveva su per giù la durata di una fase lunare. — Così a lungo — disse. Non riusciva a darsi pace. I suoi amici, i suoi compagni di viaggio erano morti da così tanto tempo, dunque, e lui era rimasto solo sulla Terra… — Sei anni?

— Non ricordi nulla di questi sei anni?

— Nulla…

— Abbiamo dovuto scacciare qualsiasi rudimentale ricordo tu potessi avere di quel periodo, al fine di ricostruire la tua vera memoria e personalità. Siamo molto dispiaciuti che tu abbia perso sei anni di vita. Ma non sarebbero stati ricordi salutari o piacevoli. Quei brutali fuorilegge avevano fatto di te una creatura più brutale ancora di loro stessi. Sono contento che non ne conservi ricordo, prech Ramarren.

Non solo contento, ma felice. Costui doveva avere scarsissima capacità empatica, e nessun addestramento, altrimenti avrebbe opposto una difesa più efficace; le sue capacità telepatiche erano invece eccellenti. Sempre più turbato da queste sfumature percepite solo mentalmente, che denotavano falsità o poco chiarezza in ciò che Abundibot veniva dicendo, e della continua mancanza di coerenza delle reazioni mentali, e perfino delle reazioni fisiche, che si ripetevano lente e incerte, Ramarren doveva fare uno sforzo per dare delle risposte. Ricordi… e come potevano essere passati sei anni senza che ne ricordasse un solo momento? Ma mentre la nave a velocità della luce aveva attraversato lo spazio intergalattico da Werel alla Terra erano passati centoquarant'anni, e di questi ricordava un solo momento, non di più, terribile, eterno… Come l'aveva chiamato quella pazza, urlandogli un nome con rancore folle e tormentoso?

— Che nome avevo nei sei anni precedenti?

— Che nome? Tra i nativi, intendi, prech Ramarren? Non so che nome ti dessero, se pure ne avevi uno…

Falk, l'aveva chiamato, Falk. — Compagno — disse bruscamente, traducendo in Galaktika il termine allocutivo kelshiano — imparerò da te altre cose più tardi, se vorrai. Quello che mi dici mi turba. Lasciami solo per un po'.

— Certo, certo, Ramarren. Il tuo giovane amico Orry desidera stare con te; devo mandartelo? — Ma Ramarren, che aveva esposto il suo desiderio e l'aveva visto esaudito si era ormai accomiatato da lui al modo di uno del suo Livello, desintonizzandosi. E percepiva ormai quello che gli veniva detto nient'altro che come rumore.

— Anche noi abbiamo molto da imparare da te, e desideriamo che ciò avvenga non appena ti sentirai bene. — Silenzio. Poi ancora il rumore: — I nostri uomini programmati sono pronti a servirti se vuoi qualcosa, se vuoi compagnia, non devi far altro che avvicinarti alla porta e parlare. — Ancora silenzio, finché finalmente la sgraziata presenza scomparve.

Ramarren non ci spese sopra un solo pensiero. Era troppo ansioso della sua sorte per preoccuparsi di questi suoi strani ospiti. Il turbinio che si agitava nella sua mente si faceva sempre più impetuoso, fino ad arrivare a una specie di crisi. Aveva l'impressione di essere costretto ad affrontare qualcosa che gli riusciva insopportabile, ma che allo stesso tempo desiderava affrontare, scoprire. I giorni più duri del suo addestramento al Settimo Livello erano stati solo una pallida immagine di questa disintegrazione delle emozioni e dell'identità. Allora gli era stata indotta una psicosi accuratamente tenuta sotto controllo; ma questa non era sotto controllo. Oppure sì? Si stava addestrando in questo labirinto, si stava spingendo verso la crisi? Ma chi era l'"io" che spingeva o era spinto? Lui era stato ucciso e riportato in vita. Cos'era allora la morte, la morte che non riusciva a ricordare?

Per sfuggire al profondo senso di panico che gli si gonfiava dentro si guardò attorno in cerca di un oggetto su cui fissare l'attenzione, tornando all'antico addestramento catalettico, la tecnica dell'Uscita di fissarsi su un oggetto concreto per ricostruirvi di nuovo il mondo. Ma ogni cosa attorno a lui era aliena, ingannevole, poco familiare; lo stesso pavimento sotto i suoi piedi era un'opaca distesa nebbiosa. C'era il libro che stava guardando quand'era entrata la donna e l'aveva chiamato col nome che non ricordava. Non lo ricordava. Il libro: l'aveva avuto in mano, era reale, stava lì. Lo prese con molta attenzione e guardò la pagina alla quale era aperto. Colonne di splendidi quanto poco significativi disegni, righe di scritti semiincomprensibili, diverse dalle lettere che aveva imparato negli anni del Primo Analettico, svianti, sconcertanti. Le guardò senza riuscire a leggerle, e una parola, di cui non sapeva il significato, si isolò dalle altre, la prima parola:

La via…

Dal libro lo sguardo passò alla mano che lo reggeva. Di chi era quella mano, abbronzata e ferita sotto un cielo alieno? Di chi quella mano?

La via che può essere percorsa
Non è l'eterna Via.
Il nome…

Non riusciva a ricordare il nome; non lo avrebbe letto. Con uno sforzo doloroso premeva contro quella prima parola: via e percorreva le altre parole. Queste parole le aveva lette in un sogno, durante un lungo sonno, una morte, un sogno.

Il nome che può essere nominato
non è l'eterno Nome.

Poi il sogno si dilatò sopraffacendolo come un'ondata montante, finché si ruppe.

Era Falk ed era Ramarren. Era lo sciocco e il saggio: un uomo nato due volte.

In quelle prime terribili ore pregò e scongiurò di venir liberato talora dall'una talora dall'altra personalità. Una volta perfino si trovò a imprecare angosciato nella sua lingua madre, senza nemmeno capire le parole che diceva, e questo fatto gli sembrò così terribile da piangere miserevolmente; era Falk a non capire, era Ramarren a piangere.

In quello stesso istante di infelicità raggiunse per la prima volta, anche se per un solo attimo, il punto d'equilibrio, il centro, e fu per un attimo se stesso: poi fu di nuovo perso, ma con forza sufficiente per sperare in un prossimo momento di armonia. Armonia: quand'era Ramarren si aggrappava a quell'idea e a quella disciplina, ed era probabilmente la sua padronanza di quella fondamentale dottrina kelshiana che lo tratteneva dal precipitare dritto dritto nel gorgo della follia. Ma non era possibile integrare o equilibrare le due menti e le due personalità che albergavano contemporaneamente nel suo cervello, non ancora; oscillava dall'una all'altra, scacciando la prima per amore della seconda, poi subito indietro all'incontrarlo. Era a malapena in grado di muoversi, afflitto dall'allucinazione di avere due corpi, di essere due uomini completamente diversi fisicamente. Non osava addormentarsi, benché sfinito; troppo temeva il risveglio.

Era notte, ed era abbandonato a se stesso. "A se stesso" commentò Falk. Dapprima il più forte era Falk, che aveva ricevuto una buona preparazione per questa dura prova. Fu Falk ad aprire per primo il dialogo: "Devo dormire un po', Ramarren", disse, e Ramarren ricevette queste parole come se fossero state telepatiche e senza premeditazione rispose con un gentile: "Ho paura di dormire". Si tenne quindi all'erta per un poco, assistendo nella sua mente ai sogni di Falk simili a ombre, a echi.


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