Correzione: quasi l’unica cosa.

— Miciolino ritroverà papà e lo farà ritornare? — domandò Jill.

— Lo spero, tesoro. Adesso dormi e sogna il tuo Miciolino. E papà.

Kathryn armeggiò con il quadro comandi del monitor, predisponendolo per una leggera vibrazione nel materasso della bambina. Jill sorrise. I suoi occhi si chiusero. Kathryn abbassò la luce, poi la spense del tutto. Tornando in soggiorno decise di vedere se il notiziario TV delle otto diceva qualcosa a proposito di quell’affare nel cielo. «I dischi volanti sono atterrati…» o roba del genere. Posò la mano a coppa sul pomo sporgente dalla parete, ed il video si illuminò vividamente. Appena in tempo.

«… rapporti da Taos ed ancora più a sud da Albuquerque. È stata osservata anche a Los Alamos, Grants e Jemez; Pueblo. Si tratta di una delle meteore più luminose che siano mai state viste, secondo il dottor J.F. Kelly dell’ufficio tecnico di Los Alamos. Un gruppo di scienziati inizierà domani le ricerche dei resti dell’enorme palla di fuoco. Per coloro che non l’avessero vista, trasmetteremo tra novanta secondi una registrazione dell’evento. Ripetiamo che non c’è motivo di allarme, assolutamente nessun motivo di allarme per questa insolita meteora.»

Grazie a Dio, pensò Kathryn. Una meteora. Una stella cadente. Non un jet in fiamme, né un razzo esploso. Niente vedove, stanotte. Non voleva, che qualcuno soffrisse come aveva dovuto soffrire lei.

Se adesso fosse ritornato il gattino! Non sperava di vedere ricomparire Ted sulla porta di casa, ma il gattino poteva essere ancora vivo, magari al sicuro chissà dove, forse dentro qualche garage. Kathryn spense il televisore, e tese le orecchie per cogliere eventuali miagolii. Al di fuori il silenzio era assoluto.

Il colonnello Tom Falkner non vide il globo infuocato. Mentre solcava il cielo, lui si trovava nella sala di ritrovo degli ufficiali della base aerea, a bere dello scotch giapponese fin troppo a buon mercato e a guardare senza interesse la gara di basket in TV, fra New York e San Diego. Udì, al di sopra della voce ronzante del telecronista, due tenenti che parlavano in tono sommesso di dischi volanti. Uno dei due era fermamente convinto che si trattasse proprio di navi provenienti dallo spazio. L’altro aveva assunto la tipica posizione dello scettico: mostrami un uomo venuto da un altro pianeta, mostrami un frammento del carrello d’atterraggio di un disco volante, mostrami qualsiasi cosa che io possa toccare, ed io ci crederò. Altrimenti no.

Dovevano essere entrambi un po’ alticci, si rese conto Falkner, sennò non avrebbero parlato affatto di dischi volanti. Non con lui presente nella stanza. In ogni caso, si illudevano di tenere per sé la loro conversazione, risparmiando al colonnello Falkner l’imbarazzo di dover udire per l’ennesima volta quelle due stupide parole, «disco volante». Tutti nella base erano pieni di tatto, con il povero colonnello Falkner. Tutti sapevano che il destino lo aveva toccato duramente, e cercavano di facilitargli il più possibile le cose.

Si sollevò sui gomiti ed emerse dalla sua sedia vibrante, dirigendosi rigidamente verso il bar. Il giovane e compiacente sottufficiale che si trovava dietro il bancone gli rivolse un ampio sorriso.

— Signore?

— Un altro scotch. Fammelo doppio.

Vi era forse un’ombra di riprovazione negli occhi del barista? Un barlume di disprezzo per il colonnello ubriaco? Un barista non dovrebbe trattare con condiscendenza i suoi clienti, anche se si dava il caso che il barista in questione fosse un bel ragazzo dell’Oklahoma, il quale non avrebbe toccato un goccio di alcool a meno che non gli fosse espressamente ordinato da un superiore. Falkner aggrottò la fronte, dicendosi che era troppo sensibile, che in quei giorni leggeva troppo nelle espressioni, nelle parole e perfino nei silenzi della gente. Era solo un fascio di terminazioni nervose messe a nudo, ecco il suo problema. Beveva quel puzzolente surrogato di pseudo-Glenlivet per alleviare la sua tensione, solo per ritrovarsi poi con un ulteriore fardello di sconforto e di senso di colpa.

Il ragazzo spinse un bicchiere verso di lui. Le bombolette vaporizzanti non andavano molto di moda nella mensa ufficiali. Finché c’era del personale per versare, gli ufficiali che si ritenevano gentiluomini preferivano farsi versare decentemente le loro bevande alcoliche dentro i bicchieri, anziché farsele iniettare come medicine nella maniera in uso nel 1982. Falkner borbottò qualche parola di assenso ed afferrò il bicchiere con la mano dalle nocche pelose. Giù nella gola. In un sorso che lo fece trasalire.

— Perdoni la mia indiscrezione, signore, ma com’è quella roba giapponese?

— Non l’hai mai bevuta?

— Oh, no, signore. — Il barista guardò Falkner come se il colonnello gli avesse proposto un modo particolarmente sgradevole per rovinarsi con le, sue mani. — Mai. Non sono affatto un bevitore. Credo sia proprio per questo che il calcolatore mi ha assegnato a questo lavoro di barista. Eh. Eh.

— Eh, eh — ripeté acido Falkner. Diede un’occhiata alla bottiglia di cosiddetto scotch. — Funziona, direi. C’è dell’alcool, dentro, ed ha quasi lo stesso sapore dell’originale. Solo che è terribile. E finché non riusciremo a riprendere i contatti con la Scozia, dovrò bermi questa roba. Maledetto embargo. Il presidente dovrebbe fare… — Falkner si riprese in tempo, mentre il ragazzo sorrideva timidamente. Suo malgrado, anche Falkner sorrise, poi si voltò e ritornò alla sua sedia.

Fissò lo schermo rilucente. Il pivot della squadra del San Diego, quel tipo alto due metri e dieci, volò a schiacciare la palla nel canestro. Aspetta, aspetta, pidocchioso bamboccione dalle gambe lunghe, pensò Falkner tra sé e sé. La prossima stagione ci saranno un paio di giocatori alti due metri e quaranta nella lega, ci scommetto. E ti sbatteranno giù dal tuo trono.

Un frammento di conversazione giunse alle sue orecchie. — Se ci sono degli alieni che ci osservano dallo spazio, come mai non ci hanno ancora contattato, eh?

— Forse lo hanno fatto.

— Come no, e Frederic Storm è il profeta del secolo, vero? Non venirmi a dire che appartieni al Culto del Contatto!

— Non ho detto…

Falkner si costrinse a tenere la testa rigidamente rivolta verso lo schermo TV sulla parete. Non voleva, non poteva permettersi di pensare ai dischi volanti nelle sue ore di libertà. Odiava perfino quel nome. Era tutto uno scherzo di cattivo gusto, quella storia del disco, e lo scherzo ricadeva su di lui.

Aveva quarantatré anni, benché a volte se ne sentisse centoquarantatré. Ricordava vagamente quando, per la prima volta, si era cominciato a parlare di dischi volanti. Era stato nel 1947, subito dopo la seconda guerra mondiale. Falkner non poteva ricordare la guerra vera e propria — era nato nel 1939, il giorno in cui era stata invasa la Polonia, e quando era finita la guerra lui faceva ancora la prima elementare — ma ricordava la storia dei dischi volanti, perché lo aveva spaventato a morte. Aveva letto qualcosa in proposito sulle riviste popolari del tempo, e gli aveva causato un vero terrore l’idea che un uomo, nel lontano Oregon o chissà dove, avesse avvistato astronavi provenienti da altri mondi. Il piccolo Tommy Falkner aveva sempre provato molta curiosità nei confronti dei pianeti, dello spazio, e la sua era diventata una vera e propria mania in un periodo in cui cose del genere costituivano un mistero per la gran parte della gente comune; ma quei dischi volanti del 1947 gli avevano fatto venire la pelle d’oca e gli avevano provocato incubi per una settimana di seguito.

C’era stato un andirivieni di storie sui dischi volanti. Erano sbucati fuori un po’ dappertutto degli esaltati a raccontare i loro voli nello spazio. Anche Tom Falkner voleva fare un volo nello spazio, ma uno vero e proprio. Quando, nel 1957, entrò nell’Accademia Aeronautica, aveva dimenticato del tutto la follia dei dischi volanti, ed aveva gettato via le sue riviste di fantascienza. Stava per entrare a far parte del programma spaziale americano, se mai avesse avuto inizio. Stava per diventare uno spaziale.


Перейти на страницу:
Изменить размер шрифта: