Falkner trangugiò rabbiosamente una sorsata dal suo bicchiere.
Un paio di settimane dopo essere divenuto un cadetto, i Russi lanciarono in orbita uno Sputnik. Alla fine prese forma un programma spaziale americano, zoppicante, in ritardo, ma autentico. Fu strano vedere la parola spaziale sparire dal vocabolario, ora che la fantascienza si stava trasformando in qualcosa di reale. Astronauti, ecco come vennero chiamati. Il tenente Thomas Falkner si mise in lista per il programma astronautico. Era troppo giovane per il progetto Mercury; stette a guardare con invidia gli astronauti della Gemini che partivano e ritornavano. Ma nel progetto Apollo c’era posto per lui. Era in lista per un viaggio verso la Luna da effettuarsi nel 1973. Con un po’ di fortuna, si disse allora, avrebbe anche potuto anche farcela per il viaggio su Marte prima di raggiungere i quarant’anni.
In quegli anni lo spazio era reale, una cosa seria. Trascorse i suoi giorni nel volo simulato, e le sue notti a combattere con la matematica. Dischi volanti? Idee da esaltati. «Robaccia californiana», Falkner definiva quelle storie, anche quando provenivano dal Michigan o dal Sud Dakota. In California credevano a tutto, compresi gli esseri dalla pelle purpurea che venivano dalle stelle per divorare gli uomini. Si impegnò nel lavoro. Il suo lavoro era lo spazio. Nel frattempo si sposò, e non fu un cattivo matrimonio, a parte il fatto che non vi furono figli.
Ricordava una sera del 1970 in cui lui ed un paio dei suoi colleghi dell’Apollo avevano tirato un po’ troppo la corda con un quinto di scotch, di quello autentico, un Ambassador con dodici anni di invecchiamento. E Ned Reynolds, ubriaco ed imprudente, gli aveva detto: — Tu non lascerai la Terra, Tom. E vuoi sapere perché? Perché tu non hai figli. Cattive relazioni pubbliche. Gli astronauti devono avere un paio di bei figlioli che aspettano il loro ritorno a casa, altrimenti manca la parte drammatica per la TV.
Falkner si era divertito, chissà perché, a quella battuta. Non era il genere di cose che un uomo sobrio avrebbe detto ad un amico, o il genere di cose che un uomo sobrio avrebbe accettato di sentire da un amico, ma aveva riso. — Tu non lascerai la Terra, Tom — In vino veritas. Sei mesi più tardi, nel corso di una delle normali visite psico-attitudinali, avevano scoperto qualcosa che non andava all’interno del suo orecchio, una disfunzione dell’organo preposto all’equilibrio del corpo, e questo aveva segnato la fine della sua carriera nel progetto Apollo. Lo avevano sbattuto tranquillamente fuori, spiegandogli con loro grande rincrescimento che non potevano mettere in orbita un uomo predisposto a soffrire di vertigini, anche se fino a quel momento non aveva manifestato alcuna tendenza evidente…
Gli trovarono un lavoro. Con il progetto Bluebook, il programma da quattro soldi dell’Aeronautica impostato per tranquillizzare il pubblico sull’inesistenza dei dischi volanti. Questo era successo dieci anni prima. Il progetto Bluebook si era allargato, così come richiede qualsiasi burocrazia, e adesso si chiamava SOA, Studio Oggetti Atmosferici. Ed il povero vecchio Tom Falkner, l’astronauta trombato, era il responsabile del SOA per Arizona, Nuovo Messico, Utah e Colorado. Era un colonnello della brigata dischi volanti. Se avesse stretto i denti e tenuto duro abbastanza a lungo, sarebbe diventato il prossimo generale dei dischi volanti in dotazione all’Aeronautica.
Terminò di bere il suo liquore. E nello stesso tempo si accorse che la partita di pallacanestro era stata interrotta, da circa mezzo minuto, per trasmettere un bollettino di notizie locali. Qualcosa a proposito di una meteora, una grande scia di luce… nessun motivo di allarme, assolutamente nessuno…
Falkner cercò di mettere a fuoco la mente. E dal fondo di essa emerse prepotente un pensiero sgradito: avvistamento di dischi volanti. Alla fine i bastardi dalla faccia blu di Betelgeuse sono arrivati. Nessun motivo di allarme, si sono limitati a mangiarsi Washington. Tutto a posto. Solo una meteora.
Udì il telefono che ronzava insistentemente al di là del bancone.
Poi il barista si rivolse a lui, dicendo: — È per lei, colonnello Falkner. Dal suo ufficio. Pare che siano piuttosto sconvolti, signore!
CAPITOLO SECONDO
A bordo dell’astronave Dirnana i problemi erano incominciati sopra il Polo. Si trattava di una normale nave da osservazione, del tipo che da decenni ormai pattugliava la Terra, e la possibilità di un guasto era così remota che una persona sana di mente non la prendeva nemmeno in considerazione. Quelle navi funzionavano bene: non c’era nulla da dire. Ma questa in particolare aveva qualcosa che non andava.
Il primo indizio si manifestò alla quota di trentamila metri, quando cominciò ad accendersi la luce di sicurezza. Istantaneamente i segnali d’allarme presero a vibrare nella carne dei tre membri dell’equipaggio. Tra i molti utili circuiti installati nei loro corpi ce n’era uno che consentiva loro di sapere subito quando si presentava qualche difficoltà tecnica. La prima regola di una missione era quella di non consentire agli osservati di accorgersi degli osservatori, e l’ultima cosa che un Dirnano poteva desiderare era proprio Un naufragio sulla Terra.
L’equipaggio era occupato ai propri compiti. Consisteva di un gruppo sessuale standard di tre elementi; in questo caso due maschi ed una femmina. Erano insieme da quasi un secolo, secondo il tempo terrestre, e da dieci anni erano impegnati nel loro compito di osservazione della Terra. La femmina, Glair, era addetta al sistema di registrazione delle informazioni ricavate direttamente dal pianeta. Mirtin trattava ed analizzava le informazioni, e Vorneen le trasmetteva al pianeta madre. Inoltre, avevano diversi altri incarichi che si dividevano su una base informale: manutenzione della nave, preparazione del cibo, contatto con altri osservatori, e così via. Costituivano una buona squadra. Quando giunsero i segnali d’allarme, ciascuno di essi sollevò lo sguardo dal proprio posto di lavoro, pronto ad intraprendere qualsiasi azione si rendesse necessaria per la salvezza della nave.
Mirtin — il più anziano, il più calmo, camuffato per sua stessa scelta da terrestre di mezza età — fu il primo a raggiungere il quadro comandi. Mosse rapidamente le dita, ricavò i dati e si volse verso gli altri.
— Lo scudo del plasma sta cedendo. Esploderemo tra sei minuti.
— Ma è impossibile — protestò Glair. — Noi…
Vorneen sorrise dolcemente. — Sta succedendo, Glair. È possibile. — Lui aveva il corpo di un terrestre giovane, ed era forse fin troppo orgoglioso del suo aspetto. Ma naturalmente un Dirnano in attività di osservazione doveva adottare la forma esteriore di un terrestre, ed era più che logico scegliere la configurazione che meglio esprimeva l’essenza del proprio essere. Se Vorneen aveva scelto di essere un po’ troppo bello, se Glair aveva ecceduto nel curare la voluttuosità del suo aspetto, se Mirtin desiderava essere anonimo ed incolore, erano pur sempre scelte perfettamente legittime.
Glair, riprendendosi dalla sua momentanea ottusità, si diede subito da fare. — Se smistiamo la corrente sul circuito opacizzante, questo potrebbe tenere insieme il plasma, giusto?
— Provaci — annuì Vorneen. Ma le mani di Glair erano già al lavoro.
Mirtin rise. — Adesso siamo visibili. È come essere nudi, non è vero? Come stare al mercato a mezzogiorno, nudi come vermi.
— Non possiamo rimanere visibili a lungo — disse Vorneen. — O finiremo diritti in una rete di intercettazione dei terrestri, inseguiti dai missili a testata nucleare.
— Ne dubito — ribatté decisa Glair. — Hanno già visto in precedenza le nostre navi e non le hanno mai attaccate. Facciamogli credito di questo. Loro sanno che noi siamo quassù. Almeno, i governi. Cinque minuti senza il nostro circuito opacizzante non saranno poi la fine del mondo.