Il sogno di un silenzioso e appartato posto accanto al fuoco delle cucine, affrontando creature di certo non pericolose, come i cuochi, e incarichi più impegnativi dell’attingere acqua o trasportare legna da ardere, lo aveva aiutato a continuare la marcia, a testa bassa contro gli ultimi venti invernali. Quell’immagine di quiete lo aveva sospinto come un’ossessione, unita alla consapevolezza che ogni nuovo passo aumentava di una iarda la distanza da quell’incubo che era il mare. Lungo la strada solitaria aveva riflettuto per ore, valutando nomi adeguatamente servili da adottare per quella sua nuova identità anonima, ma adesso sembrava proprio che non sarebbe stato costretto a presentarsi davanti agli sguardi attoniti dei membri della corte della Provincara vestito di stracci, come un mendicante.

Invece Cazaril implora un contadino per avere il permesso d’impadronirsi degli abiti di un cadavere, ed è grato per il favore fattogli da entrambi. Oh, sì, umilmente grato, molto umilmente grato.

La città di Valenda pareva riversarsi lungo il pendio di una bassa collina come una ricca trapunta intessuta in rosso e oro, grazie alle tegole rosse e alla dorata pietra locale, che scintillavano sotto il sole. Abbagliato, Cazaril dovette sbattere le palpebre per contemplare le familiari tonalità della sua terra natale. Le case di Ibra erano tutte imbiancate a calce, troppo luminose e addirittura accecanti sotto i caldi raggi del sole settentrionale, mentre quell’arenaria ocra costituiva il colore ideale per una casa, una città o anche una nazione… Era una carezza per gli occhi. In cima alla collina, simile a una corona d’oro, il castello della Provincara si dispiegava in tutto il suo splendore, con le mura che sembravano tremolare sotto il suo sguardo un po’ appannato. Per qualche momento rimase a contemplarlo, vagamente intimidito, poi riprese a camminare, assumendo un’andatura in qualche modo più veloce di quella che era riuscito a tenere durante tutto il suo lungo viaggio, sebbene le gambe dolenti gli tremassero per la stanchezza.

L’ora del mercato era ormai trascorsa, quindi le strade erano silenziose e tranquille quando lui le percorse, diretto alla piazza principale. Vicino alle porte del Tempio, si accostò a una donna anziana, che difficilmente lo avrebbe seguito per derubarlo, e le chiese dove poteva trovare un cambiavalute. Questi gli diede una soddisfacente quantità di vaida di rame in cambio del suo minuscolo reale d’oro, e gli fornì le indicazioni necessarie per raggiungere la bottega di una lavandaia e i bagni pubblici. Lungo la strada, Cazaril si fermò soltanto il tempo necessario ad acquistare da un venditore ambulante una focaccia all’olio e divorarla.

Entrato nella bottega della lavandaia, depose una manciata di vaida sul bancone e trattò l’affitto di un paio di calzoni, di una tunica di lino e di un paio di sandali di paglia, in modo da poter percorrere il breve tratto di strada che lo separava dai bagni pubblici, affidando quindi il suo vestiario sporco e gli stivali infangati alle mani arrossate della donna.

Ai bagni, il barbiere gli tagliò i capelli e la barba, mentre lui sedeva su una vera sedia — cosa meravigliosa — sorseggiando il tè servitogli dal garzone di bottega. Una volta che il barbiere ebbe finito, Cazaril passò nel cortile dei bagni, dove s’insaponò da capo a piedi con sapone profumato e attese che lo sguattero gli versasse sulla testa una secchiata di acqua calda. Con grande soddisfazione adocchiò l’enorme tinozza di legno dal fondo in rame costruita per ospitare, a giorni alterni, sei uomini o sei donne, ma che lui, per una felice coincidenza dovuta all’ora tarda, poteva avere tutta per sé. Dal momento che sotto la tinozza era acceso un braciere che manteneva sempre calda l’acqua, sarebbe potuto restare piacevolmente a mollo per tutto il pomeriggio, in attesa che la lavandaia avesse finito di ripulire le sue vesti.

Di lì a poco lo sguattero salì su uno sgabello e gli versò l’acqua sulla testa, costringendolo ad annaspare sotto quel getto caldo; quando riaprì gli occhi, scoprì che il ragazzo lo stava fissando a bocca aperta.

«Sei… un disertore?» chiese infine lo sguattero, con un filo di voce.

A sconvolgerlo era stata la sua schiena, un rosso ammasso di cicatrici rigonfie, sovrapposte in maniera tale da non lasciare neppure un lembo di pelle intatta. Era il retaggio dell’ultima fustigazione inflittagli sulle galee dei roknari. Nella royacy di Chalion, quella era una pena inflitta soltanto a poche categorie di criminali, tra cui appunto i disertori.

«No», rispose Cazaril, in tono deciso. «Non sono un disertore.»

Senza dubbio poteva definirsi abbandonato, forse anche tradito, però non aveva mai lasciato il proprio posto, neppure nelle situazioni più pericolose.

Richiusa la bocca, il ragazzino lasciò cadere rumorosamente il secchio e si allontanò in tutta fretta, mentre Cazaril, sospirando, si dirigeva verso la tinozza.

Si era appena adagiato nell’acqua calda, immergendosi fino al mento, quando il proprietario dei bagni entrò a grandi passi nel piccolo cortile. «Fuori!» ruggì. «Fuori di qui, razza di…»

Cazaril si ritrasse in preda al terrore quando l’uomo lo afferrò per i capelli, issandolo fuori dell’acqua.

«Che ti prende?» cercò di protestare, mentre l’altro, infuriato, gli metteva in mano i vestiti e i sandali, prendendolo poi per un braccio e trascinandolo fuori del cortile. «Un momento, aspetta, cosa stai facendo? Non posso certo uscire in strada nudo!»

Il proprietario dei bagni lo fece girare su se stesso e allentò la presa. «Allora vestiti e vattene. La mia è una bottega rispettabile, non un posto per quelli come te! Va’ al postribolo oppure, meglio ancora, va’ ad annegarti nel fiume!»

Sconcertato e grondante, Cazaril s’infilò la tunica e i calzoni, tentando poi di mettersi i sandali, mentre sorreggeva con una sola mano i pantaloni non ancora allacciati e veniva sospinto di peso verso l’uscita. Quando infine il battente gli venne sbattuto in faccia, proprio nel momento in cui si girava di nuovo verso la porta, comprese la natura di quell’equivoco: l’altro crimine che nella royacy di Chalion veniva punito con una fustigazione di quell’entità era la violenza ai danni di una vergine o di un ragazzo.

«Ma non è stato… Io non ho fatto… Sono stato venduto ai corsari di Roknar…» protestò, col volto rosso di vergogna.

Tremando, pensò di picchiare contro la porta, insistendo perché chi si trovava all’interno ascoltasse le sue spiegazioni, i giuramenti che era pronto a fare, sul suo povero onore. Gli venne in mente che il proprietario dei bagni doveva essere il padre del ragazzo e, d’un tratto, scoppiò a ridere e a piangere insieme, barcollando sull’orlo di… qualcosa che lo spaventò più della furia di quell’uomo indignato. Ansimò, sforzandosi di recuperare la calma, consapevole di non avere le forze per sostenere una discussione, e che comunque quella gente non avrebbe avuto nessun motivo per credergli, ammesso che fosse riuscito a farsi ascoltare. Lentamente, si passò sugli occhi umidi la morbida manica di lino e, respirando l’intenso profumo lasciato dal passaggio di un ferro caldo, venne travolto dai ricordi di una giovinezza trascorsa in case degne di quel nome, e non dormendo nei fossi. Sembravano passati mille anni.

Sconfitto, si voltò e ripercorse la strada fino alla bottega della lavandaia e alla sua porta dipinta di verde, cui era attaccata una campanella che trillò non appena lui spinse timidamente il battente.

«C’è un angolo dove mi possa sedere, signora?» chiese, quando la lavandaia fece capolino nella bottega in risposta al suono del campanello. «Io… ho finito prima del previsto…»

Soffocato dalla vergogna, non riuscì a concludere la frase, ma la donna si limitò a scrollare le spalle robuste. «Ah, sì, certo, venite con me. Ah, un momento», aggiunse, chinandosi dietro il bancone e mostrando un libretto grande quanto la mano di Cazaril, rilegato in cuoio grezzo. «Ecco il vostro libro. Siete fortunato che abbia controllato le tasche, altrimenti adesso sarebbe ridotto in poltiglia, ve lo garantisco.»


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