Nell’uno o nell’altro caso, era stato Davidson a ucciderla. Omicidi come quello erano già avvenuti in precedenza. Ciò che non era mai avvenuto in precedenza era ciò che aveva poi fatto Selver, due giorni dopo la sua morte.
Lyubov era arrivato solo nelle fasi finali. Ricordava ancora i suoni; lui stesso che correva lungo la Strada Principale sotto la rovente luce del sole; la polvere, il gruppo di uomini. Il tutto era durato al massimo cinque minuti: un tempo assai lungo per una lotta omicida.
Quando Lyubov era giunto, Selver era accecato dal sangue, era una sorta di giocattolo con cui Davidson si divertiva, eppure si era rimesso in piedi e stava ritornando all’attacco, non con la rabbia del guerriero impazzito, ma con la disperazione dell’intelligenza. E continuava ad attaccare.
Era Davidson quello che infine, portato alla rabbia dalla paura, a causa di quella terribile ostinazione, aveva sbattuto Selver a terra con un pugno, aveva fatto un passo avanti e aveva sollevato il piede per schiacciargli il cranio sotto gli stivali. Mentre stava per calare il piede, Lyubov aveva fatto irruzione nel cerchio di uomini.
Aveva fermato la lotta… infatti, per quanto fosse potuta essere grande la sete di sangue dei dieci o dodici uomini che avevano assistito alla scena, quella sete era ormai soddisfatta, ed essi avevano aiutato Lyubov a fermare Davidson… e da allora in poi, Lyubov aveva odiato Davidson, ed era stato odiato da lui, poiché si era interposto tra l’uccisore e la sua morte.
Poiché infatti, se è tutto il resto dell’umanità a venire ucciso dal suicida, è se stesso che l’omicida uccide; solamente, lui lo deve rifare ancora, e ancora, e ancora.
Lyubov aveva raccolto da terra Selver, un peso leggerissimo tra le sue braccia. Il volto mutilato aveva premuto sulla sua camicia, e il sangue vi era penetrato fino a bagnargli la pelle.
Aveva portato Selver al proprio bungalow, gli aveva steccato il polso fratturato, aveva fatto tutto il possibile per la sua faccia, l’aveva tenuto nel proprio letto, una notte dopo l’altra aveva cercato di parlargli, di giungere fino a lui nella solitudine del suo dolore e della sua vergogna. Si era trattato, naturalmente, di una cosa che andava contro i regolamenti.
Nessuno gli aveva fatto notare i regolamenti. E neppure aveva avuto bisogno di farlo. Lui sapeva di avere messo a repentaglio la poca simpatia di cui godeva presso gli ufficiali della colonia.
Aveva fatto sempre attenzione a tenersi dalla giusta parte del Quartier Generale, protestando solo di fronte ai casi estremi di brutalità contro gli indigeni, usando la persuasione e non la provocazione, e cercando di conservare le poche briciole di potere e di influenza da lui possedute.
Non poteva evitare lo sfruttamento degli Athshiani. Era molto peggio di quanto non gli avesse fatto credere il suo tirocinio, ma poteva fare poco, a tal riguardo, ora come ora. I suoi rapporti all’Amministrazione e al Comitato per i Diritti avrebbero potuto… dopo il viaggio di andata e ritorno, cinquantaquattro anni… avere qualche effetto; la Terra avrebbe potuto perfino decidere che la politica di Colonia Aperta per il pianeta Athshe era un grave errore. Meglio cinquantaquattro anni che mai. Se si fosse perso la tolleranza dei suoi superiori, essi avrebbero potuto censurare o invalidare i suoi rapporti, e allora non ci sarebbe stata alcuna speranza.
Ma era troppo arrabbiato, ora, per continuare con quella strategia. Al diavolo gli altri, se insistevano nel voler vedere le sue attenzioni verso un amico come un insulto alla Madreterra e un tradimento della colonia. Se lo avessero etichettato "l’amante degli alieni", la sua utilità per gli Athshiani sarebbe svanita; ma non poteva collocare al di sopra dei pressanti bisogni di Selver un bene collettivo che era solo possibile. Non puoi salvare un popolo vendendo il tuo amico.
Davidson, stranamente infuriato dalle piccole ferite che Selver gli aveva arrecato e dall’interferenza di Lyubov, era andato in giro a dire che intendeva farla finita con quel creechie ribelle; e certo l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto la possibilità. Lyubov rimase con Selver notte e giorno per due settimane, e poi lo portò via dalla Centrale e lo fece scendere in una città della costa occidentale, Broter, dove Selver aveva dei parenti.
Non c’erano penalità per chi aiutasse gli schiavi a fuggire, poiché gli Athshiani non erano schiavi in nessun senso, se non di fatto: erano Personale di Lavoro Autoctono Volontario. Lyubov non fu neppure rimproverato. Ma gli ufficiali regolari nutrirono una sfiducia totale, invece che parziale, nei suoi confronti, da allora in poi; e anche i suoi colleghi dei Servizi Speciali, gli esobiologi, i coordinatori agricoli e forestali, gli fecero capire, varie volte, che si era comportato in modo irrazionale, donchisciottesco o stupido.
«Credevi di venire a un picnic?» gli aveva domandato Gosse.
«No, non credevo che fosse nessun porco picnic» aveva risposto Lyubov, sgarbato.
«Non capisco perché un esperto di forme d’intelligenza si voglia legare volontariamente a una Colonia Aperta. Sai che la gente che studi finirà per essere schiacciata, e probabilmente spazzata via. È il modo in cui vanno le cose. È la natura umana, e certo saprai che non puoi cambiarla. Allora, perché venire a osservare il processo? Per masochismo?»
«Non so che cosa sia la "natura umana". Forse lasciare descrizioni di ciò che spazziamo via fa parte della natura umana… E poi, è forse più piacevole, per un ecologo?»
Gosse aveva ignorato queste parole. «D’accordo, scrivi pure le tue descrizioni. Ma tienti fuori della mischia. Un biologo che studia una colonia di ratti non ci mette dentro le mani per salvare dei singoli ratti che gli sono simpatici e che corrono dei pericoli, lo sai.»
A questo, Lyubov era sbottato. Aveva sopportato troppo.
«No, certamente no» aveva detto. «Un ratto non può essere un amico. Selver è mio amico. In realtà è l’unico uomo di questo pianeta che io consideri mio amico.»
Queste parole avevano ferito il povero vecchio Gosse, che voleva essere per Lyubov una figura paterna, e non avevano fatto del bene a nessuno. Eppure era la verità. E la verità vi renderà liberi… Io amo Selver, lo rispetto, l’ho salvato; ho sofferto con lui; ho paura di lui. Selver è mio amico.
Selver è un dio.
Così aveva detto la piccola vecchietta verde, come se tutti lo sapessero, con la stessa semplicità con cui avrebbe potuto dire che Tizio era un cacciatore.
«Selver Sha’ab.»
Ma che cosa significava sha’ab, però? Molte parole della Lingua delle Donne, il parlare quotidiano degli Athshiani, venivano dalla Lingua degli Uomini, che era uguale per tutte le comunità, e quelle parole, molte volte, non solo avevano due sillabe, ma avevano anche due significati. Erano come monete: diritto e rovescio. Sha’ab significava dio, o entità numinosa, o essere potente; significava anche un’altra cosa, del tutto differente; ma Lyubov non riusciva a ricordare quale fosse. A questo punto dei suoi pensieri, lui era già a casa, nel bungalow, e gli bastava andare a guardare nel dizionario che lui e Selver avevano compilato in quattro mesi di lavoro faticoso ma armonioso. Ma certo: Sha’ab, traduttore.
Era quasi troppo opportuno, troppo a proposito.
C’era un legame tra i due significati? Spesso c’era, ma non con tale frequenza da costituire una regola. Se un dio era un traduttore, che cosa traduceva? Selver era effettivamente un interprete dotato, ma quel dono aveva trovato espressione solamente in un avvenimento fortuito: il fatto che una lingua totalmente straniera fosse stata portata nel suo mondo.
Uno sha’ab era una persona che traduceva il linguaggio del sogno e della filosofia, la Lingua degli Uomini, nel linguaggio di tutti i giorni? Ma tutti i Sognatori sapevano farlo. Poteva allora essere una persona che sapeva tradurre nella vita della veglia l’esperienza centrale della visione: una persona che serviva da legame tra le due realtà, considerate uguali dagli Athshiani, il tempo del sogno e il tempo del mondo, le cui connessioni, per quanto vitali, sono oscure? Un legame, una persona che poteva dire a voce le percezioni del subconscio. "Parlare" quel linguaggio è agire. Fare una nuova cosa. Cambiare o essere cambiato radicalmente, dalla radice. Poiché la radice è il sogno.