— Che cosa volete?

— Dobbiamo parlare, signor Gosse — disse Selver, che aveva imparato da Lyubov a parlare correttamente. — Io sono Selver dell’Albero di Frassino di Eshreth. Sono l’amico di Lyubov.

— Sì, ti conosco. Che hai da dire?

— Ho da dire che le uccisioni sono finite, se questa può diventare una promessa mantenuta dal tuo popolo e dal mio. Tutti voi potete andarvene in libertà, se siete disposti a raccogliere tutta la vostra gente dei campi di taglialegna di Sornol Meridionale, Kushil e Rieshwel, e farla stare tutta insieme qui. Potete abitare qui dove la foresta è morta, dove voi piantate le vostre erbe da seme. Non ci deve più essere abbattimento di alberi.

Il volto di Gosse si era fatto interessato. — I campi non sono stati attaccati?

— No.

Gosse non disse nulla.

Selver studiò la sua faccia, e dopo qualche tempo riprese a parlare: — Ci sono meno di duemila del vostro popolo che vivono ancora nel mondo, penso. Le vostre donne sono tutte morte. Negli altri campi ci sono ancora armi. E noi siamo più di quanti potreste uccidere.

"Suppongo che lo sappiate, e che per questo non abbiate cercato di farvi portare dei lanciafiamme dalle navi volanti, per uccidere le guardie e poi fuggire. Non vi sarebbe servito a nulla: siamo effettivamente così tanti. Se voi farete insieme con noi la promessa, sarà molto meglio, e poi potrete aspettare senza danni che una delle vostre Grandi Navi venga, e potrete lasciare il mondo. Questo succederà tra tre anni, ritengo."

— Sì, tre anni locali… Come lo sai?

— Be’, gli schiavi hanno orecchie, signor Gosse.

Gosse finalmente lo osservò. Poi distolse lo sguardo, si agitò nervosamente, cercò di mettere comoda la gamba. Guardò nuovamente Selver, distolse nuovamente lo sguardo.

— Avevamo già "promesso" di non fare del male a nessuno del tuo popolo. È questo il motivo per il quale i lavoratori sono stati rimandati a casa. E non è servito a niente, voi non ci avete ascoltato.

— Non era una promessa fatta a noi.

— Come possiamo fare una qualsiasi specie di accordo o trattato con un popolo che non ha governo, non ha autorità centrale?

— Non lo so. Non sono sicuro che voi sappiate che cosa sia una promessa. Quella di cui parlate è stata presto infranta.

— Che cosa intendi dire? Da chi, come?

— A Rieshwel, New Java. Quattordici giorni fa. Una città è stata bruciata, la sua gente uccisa dagli umani del Campo di Rieshwel.

— Di che cosa parli?

— Notizie portate a noi da messaggeri di Rieshwel.

— È una menzogna. Siamo sempre stati in contatto radio con New Java, fino al massacro. Nessuno ha ucciso dei nativi, né laggiù né in alcun altro luogo.

— Voi dite la verità che conoscete — disse Selver. — Io dico la verità che conosco io. Io accetto la vostra ignoranza delle uccisioni di Rieshwel; ma voi dovete accettare la mia parola che sono state fatte. Resta questo punto: la promessa deve essere fatta a noi e insieme con noi, e deve essere mantenuta. Penso che voi desideriate parlare di queste cose con il colonnello Dongh e gli altri.

Gosse fece per rientrare nel recinto, poi si volse indietro e disse con la sua voce profonda, roca: — Chi sei, tu, Selver? Sei stato tu… a organizzare l’attacco? Sei stato tu a guidarli?

— Sì, sono stato io.

— Allora tutto questo sangue ricade sulla tua testa — disse Gosse, e con improvvisa crudeltà: — Anche quello di Lyubov, lo sai. È morto… il tuo "amico Lyubov".

Selver non capì la frase "questo sangue ricade sulla tua testa". Aveva imparato l’omicidio, ma della colpa conosceva poco più del nome. Mentre i suoi occhi incontravano per un istante lo sguardo pallido e offeso di Gosse, provò timore. Un malessere si sollevò in lui, un gelo mortale. Cercò di allontanarlo da sé, chiudendo gli occhi per un momento. Infine disse: — Lyubov è mio amico, e quindi non è morto.

— Voi siete dei bambini — disse Gosse, con odio. — Bambini, selvaggi. Non avete alcun concetto della realtà. Questo non è un sogno, questa è la realtà! Voi avete ucciso Lyubov. Lyubov è morto. Voi avete ucciso le donne… le donne… le avete bruciate vive, le avete ammazzate come animali!

— Avremmo dovuto lasciarle in vita? — disse Selver con una violenza uguale a quella di Gosse, ma piano, con la voce che cantava un poco. — Per riprodurvi come insetti nella carcassa del Mondo? Per schiacciarci? Le abbiamo uccise per sterilizzarvi.

"Io so che cos’è un realista, signor Gosse. Io e Lyubov abbiamo parlato di queste parole. Un realista è un uomo che conosce sia il mondo sia i propri sogni. Voi non siete sani: non c’è un solo uomo su mille, tra voi, che sappia come sognare. Neppure Lyubov, e lui era il migliore di tutti.

"Voi dormite, vi svegliate e dimenticate i vostri sogni, dormite di nuovo e poi vi svegliate di nuovo, e in questo modo passate l’intera vostra vita, e pensate che questa sia l’esistenza, la vita, la realtà! Voi non siete bambini, voi siete uomini adulti, ma insani. Ed è per questo che noi abbiamo dovuto uccidervi, prima che ci faceste diventare pazzi. E ora ritornate pure dentro, a parlare della realtà con gli altri uomini insani. Parlatene a lungo, e bene!"

Le guardie aprirono la porta, minacciando con le lance gli umani che si affollavano dietro di essa; Gosse rientrò nel recinto, e le sue grosse spalle erano curve, come se dovesse ripararsi dalla pioggia.

Selver era molto stanco. La donna-capo di Berre e un’altra donna accorsero da lui e gli camminarono a fianco, mettendosi le sue braccia intorno alle spalle, in modo che non cadesse, neppure se fosse inciampato. La giovane cacciatrice Greda, una cugina del suo Albero, scherzò con lui, e lui le rispose a cuor leggero, ridendo. Il viaggio di ritorno a Endtor parve prolungarsi per giorni interi.

Selver era troppo stanco per mangiare. Bevve un poco di brodo caldo e si stese accanto al Fuoco degli Uomini. Endtor non era una città, ma un semplice accampamento vicino al grande fiume, un luogo di pesca favorito da tutte le città che un tempo erano esistite in quella parte della foresta, prima che giungessero gli umani.

Non c’era una Loggia. Due anelli di pietre nere intorno ai fuochi e una lunga banchina erbosa lungo il fiume, dove tende di cuoio e di vimini intrecciati potevano venire innalzate: questo era Endtor. Il fiume Menend, il più grande corso d’acqua di Sornol, parlava incessantemente nel mondo e nei sogni di Endtor.

C’erano molti vecchi uomini accanto al fuoco, e alcuni di essi gli erano noti fin da Broter e Tuntar e dalla sua città di Eshreth, ora distrutta, altri gli erano ignoti; poteva vedere nei loro occhi e nei loro gesti, e udire dalla loro voce, che erano Grandi Sognatori; un numero di sognatori così grande non si era forse mai riunito in un solo luogo, in precedenza. Mentre era steso in tutta la sua lunghezza, con la testa sollevata sulle mani, fissando il fuoco, disse: — Ho chiamato matti gli umani. Sono io stesso matto?

— Tu non riconosci un tempo dall’altro — disse il vecchio Tubab, gettando una pigna nel fuoco — perché per troppo tempo non hai sognato, né dormendo né nella veglia. Il costo di ciò richiede molto tempo per essere pagato.

— I veleni che prendono gli umani fanno pressappoco lo stesso effetto della mancanza di sonno e di sogno — disse Heben, che era stato schiavo sia alla Centrale sia a Campo Smith. — Gli umani avvelenano se stessi allo scopo di sognare. Ho visto in loro lo sguardo del sognatore, dopo che avevano preso il veleno.

"Ma non potevano chiamare a sé il sogno, né controllarlo, né intesserlo o dargli forma, né cessare di sognare: ne erano sospinti, sopraffatti. Non sapevano affatto che cosa avessero dentro di sé. E la stessa cosa succede a un uomo che non sogna per molti giorni.

"Anche se fosse il più saggio della Loggia, sarebbe ugualmente pazzo, di tanto in tanto, prima o poi, ancora per molto tempo in seguito. Sarebbe spinto, reso schiavo. Non capirebbe se stesso."


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