E almeno una cosa positiva sarebbe uscita da tutto l’accaduto. Avrebbero fatto ciò che avrebbero dovuto fare fin dall’inizio, e avrebbero ripulito il pianeta in funzione dell’occupazione umana. Neppure Lyubov avrebbe potuto impedire loro di cancellare i creechie, ormai… soprattutto quando avessero udito che era stato il creechie beniamino di Lyubov a guidare il massacro!
Per un po’ di tempo, sarebbero stati favorevoli allo sterminio di quei parassiti, d’ora in poi; e forse… ripeto forse… avrebbero affidato a lui quel lavoretto. Di fronte a quel pensiero, un altro uomo avrebbe anche potuto sorridere. Ma lui mantenne impassibile il volto.
Il mare sotto di lui era grigiastro dell’ultima luce del crepuscolo, e davanti a lui si stendevano le collinette delle isole, i profondi corrugamenti, i numerosissimi fiumi e le molteplici foglie delle foreste immerse nella tenebra.
2
Selver
Ogni tinta della ruggine e del tramonto, rossi marrone e verdi pallidi, cangiava interminabilmente nelle lunghe foglie agitate dal vento. Le radici dei salici ramati, spesse e nodose, erano color verde muschio in prossimità dell’acqua corrente, che, come il vento, si muoveva con lentezza, con molti ritorni e pause apparenti, trattenuta da rocce, radici, foglie cadute e fronde pendenti.
Nessun cammino era netto, nessuna luce era ininterrotta nella foresta. Nel vento, nell’acqua, nella luce del giorno e in quella delle stelle sempre s’infilavano la foglia e il ramo, il tronco e la radice, il chiaroscuro, la complessità. Brevi percorsi correvano sotto i rami intorno ai tronchi, sulle radici: non procedevano diritti, bensì cedevano a ogni ostacolo, tortuosi come nervi.
Il terreno non era asciutto e solido, ma umido ed elastico, prodotto dalla collaborazione degli organismi viventi con la lunga complicata morte delle foglie e degli alberi; e da quel ricco cimitero crescevano sia alberi di trenta metri, sia minuscoli funghi che spuntavano in cerchi larghi poco più di un centimetro.
L’odore dell’aria era sottile, vario e dolce. La distanza a cui poteva giungere lo sguardo non era mai molta, a meno che non si guardasse in alto, fra i rami, e non si scorgessero le stelle. Nulla era puro, secco, arido, netto. Le rivelazioni mancavano all’appello.
Non esisteva la visione di tutte le cose nello stesso tempo: non c’erano certezze. Le tinte della ruggine e del tramonto continuavano a cangiare sulle foglie pendenti dei salici ramati, e non avresti neppure potuto dire se le foglie dei salici erano di un bruno tendente al rosso, o di un rosso tendente al verde, o verdi.
Selver giunse a un sentiero accanto all’acqua, camminando lentamente e spesso incespicando nelle radici di salice. Scorse un vecchio, intento a sognare, e si fermò. Il vecchio lo fissò, tra le lunghe foglie dei salici, e lo vide nei suoi sogni.
— Posso venire nella tua Loggia, Padron Sognatore? Vengo da assai lontano.
Il vecchio continuò a rimanere seduto, senza muoversi. Dopo un poco, Selver si accoccolò sui calcagni, a lato del sentiero, accanto al torrente. La sua testa si chinò, poiché era esausto e doveva dormire. Camminava da cinque giorni.
— Appartieni al tempo del sogno o a quello del mondo? — gli chiese infine il vecchio.
— Al tempo del mondo.
— Vieni con me, allora.
Il vecchio si alzò rapidamente e accompagnò Selver lungo il sentiero tortuoso che portava dal boschetto di salici alle regioni più asciutte, più buie, della quercia e del biancospino.
— Ti avevo scambiato per un dio — disse, mentre lo precedeva di un passo. — E mi pareva di averti già visto, forse in sogno.
— Non certamente nel tempo del mondo. Vengo da Sornol, non sono mai stato qui prima d’ora.
— Questa città è Cadast. Io sono Coro Mena. Del Biancospino.
— Selver è il mio nome. Del Frassino.
— Ci sono persone del Frassino tra di noi, sia uomini che donne. E anche dei tuoi clan di matrimonio, Betulla e Agrifoglio; non abbiamo donne del Melo. Ma tu non sei venuto qui per una moglie, vero?
— Mia moglie è morta — disse Selver.
Giunsero alla Loggia degli Uomini, posta in una piccola altura, in mezzo a un campo di giovani querce. Si chinarono e strisciarono entro la galleria d’ingresso. All’interno, illuminato dalla luce del fuoco, il vecchio si alzò in piedi, ma Selver rimase curvo sulle mani e le ginocchia, incapace di alzarsi. Ora che soccorsi e conforto erano vicini, il corpo che lui aveva eccessivamente sforzato non voleva andare oltre. Si stese a terra, i suoi occhi si chiusero; Selver scivolò, con sollievo e gratitudine, nella grande oscurità.
Gli uomini della Loggia di Cadast si presero cura di lui, e il loro guaritore giunse a prendersi cura della ferita che aveva al braccio destro. Nella notte, Coro Mena e il guaritore Torber sedettero accanto al fuoco. Quasi tutti gli altri uomini erano con le mogli, quella notte; c’era solo un paio di sognatori apprendisti, sulle panche, ed entrambi si erano presto addormentati.
— Non so che cosa possa procurare a un uomo cicatrici come quelle che ha sulla faccia — disse il guaritore — per non parlare poi di una ferita come quella che ha al braccio. Una ferita davvero strana.
— Ed è una strana macchina, quella che recava alla cintura — disse Coro Mena.
— L’ho vista e non l’ho vista.
— L’ho messa sotto la sua panca. Sembra ferro lucidato, ma non mi pare un manufatto prodotto da uomini.
— Viene da Sornol, ti ha detto.
Entrambi rimasero in silenzio per un certo tempo. Coro Mena sentì una paura irragionevole premere su di lui, e scivolò nel sogno per trovare la ragione della paura: era un uomo anziano, adepto da lungo tempo.
Fece un sogno in cui camminavano i giganti, pesanti e terribili. Le loro membra asciutte e scagliose erano fasciate di stoffe; i loro occhi erano piccoli e chiari, come perline di stagno. Dietro di loro strisciavano grandi oggetti semoventi, fatti di ferro lucidato. Gli alberi cadevano a terra davanti a quelli.
Dagli alberi che cadevano uscì un uomo, di corsa, gridando forte, con il sangue alla bocca. Il sentiero su cui correva era l’ingresso della Loggia di Cadast.
— Be’, non ci sono dubbi — disse Coro Mena, uscendo dal sogno. — È venuto da oltremare, direttamente da Sornol, oppure è venuto a piedi dalla costa di Kelme Deva, sulla nostra stessa terra. I giganti sono in entrambi quei luoghi, dicono i viaggiatori.
— Lo seguiranno — disse Torber. Nessuno rispose alla domanda, che non era una domanda, ma la formulazione di una possibilità.
— Tu hai visto i giganti una volta, Coro?
— Una sola volta — disse il vecchio.
Sognò; e a volte, essendo molto vecchio e non più forte come un tempo, scivolò nel sonno per qualche periodo. Venne il giorno, trascorse il mezzodì. All’esterno della Loggia una squadra di cacciatori partì, con i bambini che cinguettavano, le donne che parlavano con voci simili all’acqua corrente. Una voce più asciutta chiamò Coro Mena, dalla porta. Lui strisciò fuori, nella luce della sera. All’esterno c’era sua sorella, che fiutava con piacere il vento aromatico, ma che non per questo pareva meno preoccupata.
— Lo straniero si è destato, Coro? — chiese la donna.
— Non ancora. Torber si occupa di lui.
— Dobbiamo ascoltare la sua storia.
— Non dubito che presto si sveglierà.
Ebor Dendep si accigliò. Donna-capo di Cadast, era preoccupata per il suo popolo; ma non osava chiedere di disturbare un uomo ferito, né voleva offendere i Sognatori facendo valere il suo diritto di entrare nella loro Loggia.
— Non puoi svegliarlo, Coro? — domandò infine. — E se lui fosse… inseguito?
Coro non poteva guidare le emozioni della sorella con le stesse redini delle sue, ma le avvertiva bene; l’ansia di lei lo pungeva.
— Se Torber darà il permesso, lo farò — disse.