— È un dio — disse Coro Mena.
Torber annuì, accettando quasi con sollievo il giudizio del vecchio.
— Ma non è come gli altri. Non è come l’Inseguitore, e neppure come l’Amico che non ha volto, o la Donna delle Foglie di Pioppo, che cammina nella foresta dei sogni. E non è il Guardaporta, né il Serpente. Né il Suonatore di Lira, né lo Scultore o il Cacciatore, sebbene scenda nel tempo del mondo al pari di quelli. Possiamo aver sognato di Selver in questi ultimi anni, ma non lo sogneremo più; ha lasciato il tempo del sogno. Viene nella foresta, dalla foresta, dove le foglie cadono, dove gli alberi cadono: un dio che conosce la morte, un dio che uccide e che a sua volta non rinasce.
La donna-capo ascoltò i rapporti di Coro Mena e le sue profezie, e agì. Mise in allarme la città di Cadast, assicurandosi che ogni famiglia fosse pronta a partire, con qualche pacco di cibo, con barelle pronte per i vecchi e i malati. Inviò giovani donne in esplorazione a sud e a est per avere notizie degli umani. Tenne continuamente intorno alla città un gruppo di cacciatori armati: gli altri uscirono, come sempre, ogni notte.
È quando Selver si fu maggiormente ristabilito, gli chiese di uscire dalla Loggia per raccontare la sua storia: di come gli umani uccidessero e facessero schiava la gente di Sornol, e abbattessero le foreste; di come la gente di Kelme Deva avesse ucciso gli umani. Costrinse le donne e i non-sognatori, che non comprendevano queste cose, ad ascoltare nuovamente, finché non capirono, e ne furono atterriti.
Ebor Dendep era una donna pratica. Quando un Grande Sognatore, suo fratello, le aveva detto che Selver era un dio, un cambiatore, un ponte tra le realtà, lei gli aveva creduto e aveva agito. Era responsabilità del Sognatore quella di essere attento, di essere certo che il proprio giudizio fosse vero. La responsabilità di lei era poi quella di raccogliere quel giudizio e di agire in merito. L’uno vedeva ciò che doveva essere fatto; l’altra provvedeva a che fosse fatto.
— Tutte le città della foresta devono udire — disse Coro Mena.
E dunque la donna-capo diramò le sue giovani corriere, e le donne-capo di altre città ascoltarono, e mandarono le proprie corriere. L’ammazzamento a Kelme Deva e il nome di Selver percorsero tutta l’Isola del Nord e si spinsero oltremare ad altre terre, di bocca in bocca, o per scritto; non molto velocemente, poiché il Popolo della Foresta non aveva messaggeri se non quelli che andavano a piedi; ma velocemente quant’era necessario.
Non c’era una sola nazione, sulle Quaranta Terre del mondo. C’erano più linguaggi che Terre, e ciascuno aveva un differente dialetto in ogni città che lo parlava; c’erano infinite ramificazioni di maniere, morale, costumi, arti; i tipi fisici differivano per ciascuna delle cinque Grandi Terre. La gente di Sornol era alta, e pallida, ed era costituita di grandi mercanti; la gente di Rieshwel era bassa, e laggiù molti avevano il pelo nero, e mangiavano le scimmie; e così di seguito.
Ma il clima variava poco, e la foresta pochissimo, e il mare niente affatto. La curiosità, le rotte commerciali regolari e la necessità di trovare un marito o una moglie dell’Albero adatto mantenevano un agile movimento di persone tra le città e le terre, e perciò c’erano talune somiglianze tra tutti, salvo che tra gli estremi più remoti, le semileggendarie isole barbariche di Lontano Oriente e Sud.
In tutte le Quaranta Terre, le donne governavano città e villaggi, e quasi ogni città aveva una Loggia degli Uomini. All’interno delle Logge i Sognatori parlavano una vecchia lingua, che variava poco da una terra all’altra. Raramente veniva appresa dalle donne o dagli uomini che, restando cacciatori, pescatori, tessitori, costruttori, sognavano solamente i piccoli sogni, al di fuori della Loggia.
Quasi tutti gli scritti erano nella lingua della Loggia: quando le donne-capo inviavano ragazze veloci a portare messaggi, le lettere andavano da una Loggia all’altra, e venivano tradotte dai Sognatori alle Anziane Donne, così come avveniva per gli altri documenti, dicerie, problemi, miti e sogni. Ed erano sempre le Anziane Donne a scegliere se credere o no.
Selver era in una piccola stanza a Eshsen. La porta non era chiusa a chiave, ma Selver sapeva che se l’avesse aperta ne sarebbe venuto qualcosa di male. Finché l’avesse tenuta chiusa, tutto sarebbe stato a posto. Ma c’erano dei giovani alberi, un frutteto composto di arboscelli piantati davanti alla casa; non erano alberi di melo o di noce, ma di qualche altra razza, e lui non ricordava di che razza fossero. Uscì dalla stanza per accertarsene. Erano tutti sparsi sul terreno, spezzati e sradicati. Raccolse il ramo argenteo di uno degli alberi, e dall’estremità spezzata cadde una goccia di sangue. No, non qui, non un’altra volta, Thele, disse. Oh, Thele, vieni a me prima della tua morte! Ma lei non venne.
Laggiù c’era solo la sua morte, la betulla spezzata, la porta spalancata. Selver si volse indietro e ritornò rapidamente nella casa, scoprendo che era costruita al disopra del suolo, come una casa degli umani, ed era molto alta e piena di luce. Al di là dell’altra porta, all’altro capo della stanza dal soffitto alto, c’era la lunga strada della città degli umani: Centrale.
Selver aveva la pistola nella cintura. Se Davidson fosse giunto, avrebbe potuto sparargli. Attese, fermo sulla soglia della porta aperta, e si guardò intorno, alla luce del sole. Davidson giunse: era enorme, correva così velocemente che Selver non riusciva a tenerlo entro il mirino dell’arma, mentre passava follemente da una parte all’altra dell’ampia strada, molto veloce, sempre più vicino.
La pistola pesava. Selver fece fuoco, ma dall’arma non uscì alcun fuoco, e lui, in preda alla rabbia e alla disperazione, gettò via la pistola e con essa il sogno.
Disgustato e depresso, sbuffò e scosse il capo.
— Un sogno cattivo? — s’informò Ebor Dendep.
— Sono tutti cattivi, e tutti uguali — rispose; ma la profonda inquietudine e lo sconforto si allentarono un poco, con quella risposta.
La fredda luce del sole mattutino scendeva variegata e lanceolata tra le foglie sottili e i rami del boschetto di betulle di Cadast. Laggiù sedeva la donna-capo, e intrecciava un cestino di felci nere, poiché amava tenere in attività le dita, mentre Selver giaceva accanto a lei nel mezzo-sogno e nel sogno.
Selver era a Cadast già da quindici giorni, e la sua ferita guariva bene. Dormiva ancora molto, ma per la prima volta in molti mesi aveva ripreso a sognare da sveglio, regolarmente, e non una sola volta o due nell’arco di un giorno e di una notte, ma con quella vera pulsazione, quel ritmo del sognare che deve salire e scendere da dieci a quattordici volte nel ciclo di un giorno.
Per cattivi che fossero i suoi sogni, pieni di terrore e di vergogna, lui li accoglieva con gioia. Aveva temuto di essere ormai isolato dalle proprie radici, di essersi spinto troppo avanti nella landa morta dell’azione per poter ancora ritrovare la via del ritorno alle sorgenti della realtà. Ora, sebbene quell’acqua fosse molto amara, Selver ritornava a berne.
Poco dopo, atterrò nuovamente Davidson, tra le ceneri dell’accampamento bruciato, e, invece di cantare su di lui, questa volta lo colpì sulla bocca con una pietra. I denti di Davidson si spaccarono, e il sangue prese a scorrere tra le schegge bianche.
Il sogno era utile… un chiaro appagamento di desiderio… ma lui lo fermò a quel punto, poiché lo aveva già sognato molte volte, sia prima di incontrare Davidson tra le ceneri di Kelme Deva, sia dopo di allora. In quel sogno non c’era altro che un sollievo immediato. Una goccia di acqua priva di gusto. Mentre invece gli occorreva il gusto amaro. Doveva ritornare subito indietro, non a Kelme Deva, ma alla lunga, terribile strada nella città straniera chiamata Centrale, dove aveva attaccato la Morte ed era stato sconfitto.