Painter prese Lisa per un braccio.
«Si è fatto saltare in aria?» chiese la donna, guardando atterrita il granaio.
«No, ha fatto saltare la botola. Andiamo, il fuoco lo terrà a bada ancora per poco.»
Painter fece strada sul terreno ghiacciato, evitando le carcasse congelate delle capre e delle pecore, finché non uscirono dal cancello dell’ovile.
La nevicata si fece più fitta. Era una benedizione, ma solo fino a un certo punto. Painter non portava altro che un mantello di lana pesante e stivali imbottiti di pelo. Non era granché per proteggersi da una tormenta. Ma la neve fresca avrebbe aiutato a nascondere le loro tracce e ridurre leggermente la visibilità.
Fece strada verso un sentiero che costeggiava uno strapiombo e scendeva al villaggio sottostante, dove era stato qualche giorno prima.
«Guarda!» esclamò Lisa.
Sotto di loro, una colonna di fumo saliva in cielo, una versione ridotta di quella che avevano alle spalle.
«Il villaggio…» Painter serrò un pugno.
Non stavano radendo al suolo soltanto il monastero. Anche le capanne sparse laggiù erano state messe a ferro e fuoco. Gli attentatori non volevano lasciare testimoni.
Painter abbandonò il sentiero. Era troppo esposto. Sicuramente sarebbe stato sorvegliato e laggiù ci potevano essere altri uomini. Batté in ritirata verso le rovine in fiamme del monastero.
«Dove andiamo?» chiese Lisa.
Painter indicò un punto oltre le fiamme. «Nella terra di nessuno.»
«Ma non è là che…»
«Che sono state viste le luci l’ultima volta», confermò lui. «Però è anche un posto in cui possiamo far perdere le nostre tracce e trovare riparo, per rintanarci e aspettare la fine della tormenta. Aspetteremo che arrivi qualcun altro a indagare sull’incendio e sul fumo.»
Painter guardò la densa colonna di fumo nero. Doveva essere visibile a chilometri di distanza. Ma c’era qualcuno a vederla? Il suo sguardo si spostò più in alto, alle nuvole. Cercò di penetrare quella coltre, verso il cielo che stava oltre. Pregò che qualcuno riconoscesse il pericolo.
Fino ad allora, aveva soltanto una possibilità.
«Andiamo.»
Washington, D.C.,
ore 01.25
Monk attraversò la buia piazza del Campidoglio, con Kat al fianco. Marciavano a passo sostenuto, ma oltre all’andatura condividevano anche una certa irritazione.
«Preferirei che aspettassimo», disse Kat. «È troppo presto. Potrebbe succedere qualsiasi cosa.»
Monk sentiva il vago profumo di gelsomino che emanava da lei. Avevano fatto una rapida doccia assieme, dopo la telefonata di Logan Gregory, accarezzandosi a vicenda nel vapore, abbracciati mentre si sciacquavano, in un ultimo momento di intimità. Ma poi, mentre si asciugavano e si vestivano ognuno per conto proprio, con le zip da chiudere e i bottoni da allacciare, cominciarono a intromettersi le questioni pratiche. La realtà prese il sopravvento, raffreddando la loro passione quanto il gelo notturno.
Monk le lanciò un breve sguardo. Kat indossava pantaloni blu, una camicetta bianca e una giacca a vento con lo stemma della marina statunitense. Professionale come sempre, tirata a lucido come le sue scarpe da ginnastica di cuoio nero. Monk indossava Reebok nere, jeans scuri, un maglione a collo alto color avena e, per finire, un berretto da baseball dei Chicago Cubs.
«Finché non sono sicura», proseguì Kat, «preferirei che non parlassimo con nessuno della gravidanza.»
«Che vuoi dire con ‘finché non sono sicura’? Finché non sai per certo se vuoi il bambino? Finché non sei sicura di noi due?»
Avevano discusso per tutta la strada, dall’appartamento di Kat, che confinava con Logan Circle, un ex bed breakfast vittoriano convertito in un complesso residenziale, raggiungibile a piedi dal Campidoglio. Quella notte, il breve tragitto sembrò interminabile.
«Monk…»
Lui si fermò. Protese una mano verso di lei, poi l’abbassò di nuovo. Ma anche lei si fermò.
La guardò dritto negli occhi. «Dimmi, Kat.»
«Voglio essere sicura che la gravidanza… non so… che duri. Aspettare fino a gravidanza inoltrata prima di dirlo in giro.» Gli occhi le brillavano nel chiaro di luna. Era prossima alle lacrime.
«Piccola, è per questo che dobbiamo dirlo a tutti quanti.» Le si avvicinò e le posò una mano sul ventre. «Per proteggere quello che sta crescendo qui dentro.»
Lei si voltò dall’altra parte. La mano di lui finì sulla curva della schiena. «E poi forse avevi ragione. La mia carriera… Forse non è il momento giusto.»
Monk sospirò. «Se i bambini nascessero soltanto al momento giusto, il mondo sarebbe un luogo molto più vuoto.»
«Sei ingiusto. Non stiamo parlando della tua, di carriera.»
«Col cavolo! Credi davvero che un bambino non cambierebbe la mia vita e le mie scelte da questo momento in poi? Cambia tutto.»
«Esatto. È questo che mi spaventa di più.» Si lasciò andare contro il palmo della sua mano. Lui la cinse tra le braccia.
«Affronteremo tutto quanto assieme», sussurrò lui. «Te lo prometto.»
«Comunque preferirei non dire niente, almeno per un altro paio di giorni. Non sono nemmeno stata da un medico. Magari il test di gravidanza è sbagliato.»
«Quanti test hai fatto?»
Kat si adagiò su di lui.
«Allora?»
«Cinque», bisbigliò lei.
«Cinque?» Monk non riuscì a nascondere un tono divertito.
Kat gli mollò un pugno tra le costole. «Non mi prendere in giro.»
Monk sentì il sorriso nella voce di lei e la strinse ancora più forte. «Va bene. Sarà il nostro segreto, per adesso.»
Lei si girò tra le sue braccia e lo baciò, non appassionatamente, solo per dire grazie. Si separarono, ma tennero le dita intrecciate mentre proseguivano lungo il viale.
Più avanti, illuminata a giorno, c’era la loro destinazione: lo Smithsonian Castle. I suoi bastioni di arenaria rossa, le torri e le guglie brillavano nel buio; un anacronistico punto di riferimento nella città ordinata che lo circondava. Mentre l’edificio principale ospitava il centro informatico della Smithsonian Institution, il vecchio bunker abbandonato sottostante era stato convertito nel comando centrale della Sigma. Così la schiera di scienziati militari sotto copertura che costituiva la DARPA era nascosta nel cuore dei musei e dei laboratori di ricerca dello Smithsonian.
Le dita di Kat si districarono da quelle di Monk mentre i due si avvicinavano al castello. Lui la osservava, ancora tormentato da una preoccupazione. Nonostante l’accordo raggiunto, sentiva che dentro di lei rimaneva un nocciolo di insicurezza. Era qualcosa che andava al di là del bambino?
Finché non sono sicura.
Sicura di cosa?
Quel dubbio tormentò Monk per tutto il percorso, fino agli uffici sotterranei del comando Sigma. Ma, una volta arrivati, il resoconto di Logan Gregory, il direttore ad interim della Sigma, aggiunse tutta una nuova schiera di preoccupazioni.
«L’area è ancora investita da una perturbazione, con temporali che riguardano l’intero golfo del Bengala», spiegò Logan, seduto dietro una scrivania ordinata. Una serie di schermi a cristalli liquidi occupava un’intera parete. Due si riempirono di dati. Uno mostrava una presa diretta da un satellite meteorologico puntato sull’Asia.
Monk passò a Kat una foto satellitare.
«Speriamo di avere qualche altra notizia prima dell’alba», proseguì Logan. «Ang Gelu è partito in mattinata dal Nepal per portare del personale medico al monastero. Tentavano di volare tra una tempesta e l’altra. È ancora presto. Laggiù è soltanto mezzogiorno, adesso. Perciò speriamo di avere ulteriori notizie tra breve.»
Monk e Kat si scambiarono uno sguardo fugace. Erano stati informati dell’indagine del direttore. Da tre giorni si erano persi i contatti con Painter Crowe. A giudicare dalla sua faccia tirata, Logan Gregory era rimasto sveglio tutto il tempo. Indossava il solito abito blu, ma era leggermente stropicciato sui gomiti e sulle ginocchia, il che, per il secondo in comando alla Sigma, era come dire trasandato. I capelli color paglia e l’abbronzatura gli conferivano sempre un’aria giovanile, ma quella notte era evidente che aveva oltrepassato i quaranta: occhi gonfi, un leggero pallore e un paio di rughe tra gli occhi profonde quanto il Grand Canyon.