«E Gray?» chiese Kat.
Logan allineò i documenti nella cartellina con un colpo secco sulla scrivania, come a chiudere la questione precedente. Sempre efficiente, fece scivolare al centro del tavolo un’altra cartellina e l’aprì. «Un’ora fa hanno attentato alla vita del comandante Pierce.»
«Cosa?» Monk si sporse in avanti, un po’ troppo repentinamente. «Allora che c’entrano tutti questi bollettini meteorologici?»
«Calma. È al sicuro e aspetta rinforzi.» Logan ricapitolò sommariamente gli eventi di Copenhagen. «Monk, ho disposto tutto affinché lei raggiunga il comandante. C’è un jet che l’aspetta a Dulles, pronto a decollare tra novantadue minuti.»
Monk doveva riconoscere l’efficienza di quell’uomo. Non guardò neanche l’orologio.
«Capitano Bryant», proseguì Logan. «Nel frattempo, vorrei tenerla qui, mentre monitoriamo la situazione in Nepal. Devo chiamare la nostra ambasciata a Katmandu. Mi farà comodo la sua esperienza coi servizi di intelligence nazionali e internazionali.»
«Certamente, signore.»
Monk era improvvisamente felice che Kat avesse risalito le gerarchie dell’intelligence. Avrebbe fatto da braccio destro a Logan durante quella crisi. Lui preferiva che rimanesse lì, al sicuro, sotto lo Smithsonian Castle, piuttosto che in azione. Una preoccupazione in meno.
Si accorse che Kat lo fissava. Aveva uno sguardo adirato, come se gli avesse letto nel pensiero. Lui mantenne un’espressione impassibile.
Logan si alzò. «Adesso vi lascio ai vostri compiti.» Tenne aperta la porta dell’ufficio, congedandoli.
Non appena la porta si chiuse alle loro spalle, Kat lo prese per un braccio, stringendo forte sopra il gomito. «Parti per la Danimarca?»
«Sì, e allora?»
«E…» Lo trascinò nel bagno delle donne, vuoto a quell’ora tarda. «E il bambino?»
«Non capisco. Che cosa…»
«E se ti succedesse qualcosa?»
Monk sbatté le palpebre. «Non succederà nulla.»
Kat gli sollevò l’altro braccio, mostrando la protesi della mano. «Non sei indistruttibile.»
Lui abbassò il braccio, quasi nascondendo la mano dietro la schiena. Arrossì in viso. «Vado a fare il babysitter. Appoggerò Gray mentre finisce il suo lavoro laggiù. Voglio dire, persino Sara lo sta per raggiungere. Molto probabilmente finirò per fargli da chaperon. Poi torneremo qui col primo volo.»
«Se è così poco importante, lascia che ci vada qualcun altro. Posso dire a Logan che ho bisogno del tuo aiuto qui.»
«Non credo che ci crederebbe.»
«Monk…»
«Parto, Kat. Sei tu quella che non vuole far sapere della gravidanza. Io vorrei gridarlo al mondo intero. In un modo o nell’altro, abbiamo dei doveri. Tu i tuoi e io i miei. E, fidati, sarò prudente.» Le posò una mano sul ventre. «Mi parerò il culo per tutti e tre.»
«Be’, è un culo piuttosto carino.»
Quando Monk le sorrise, Kat fece altrettanto, ma lui vide anche lo sfinimento e la preoccupazione nei suoi occhi. Aveva soltanto una risposta.
Si avvicinò, posando le labbra su quelle di lei e sussurrò: «Lo prometto».
«Prometti cosa?» chiese lei, retrocedendo leggermente.
«Tutto», rispose lui, baciandola appassionatamente. Diceva sul serio.
«A Gray puoi dirlo», disse lei quando sciolsero l’abbraccio. «Purché ti giuri di mantenere il segreto.»
«Davvero?» I suoi occhi s’illuminarono, poi si socchiusero, sospettosi. «Perché?»
Kat gli girò attorno, andando verso lo specchio, ma non prima di avergli dato un buffetto sul sedere. «Voglio che ti guardi il culo anche lui.»
«D’accordo, ma non penso che sia passato all’altra sponda.»
Lei scosse la testa e si guardò allo specchio. «Che cosa devo fare con te?»
Monk la raggiunse da dietro e le cinse la vita. «Be’, secondo gli ordini di Gregory, ho ancora novantadue minuti.»
Himalaya,
ore 12.15
Lisa faceva fatica a stare dietro a Painter che, con l’abilità di uno stambecco, faceva strada giù per un ripido pendio, pieno di massi e passaggi scivolosi di scisto ghiacciato. La neve cadeva copiosa, come una nuvola fluttuante che riduceva la visibilità a pochi metri, creando uno strano crepuscolo grigio. Ma perlomeno si erano lasciati alle spalle la parte più esposta ai venti gelidi. Stavano scendendo da un passo profondo tra le montagne, camminando controvento.
In ogni caso, non potevano sfuggire al freddo glaciale, mentre la temperatura precipitava. Nonostante il parka da tormenta e i guanti, Lisa aveva i brividi. Anche se erano in cammino da meno di un’ora, il calore del monastero in fiamme era un ricordo lontano. Quei pochi centimetri di pelle del viso che rimanevano esposti erano arsi e raschiati dal vento.
Painter doveva passarsela ancora peggio. Aveva indossato un paio di pantaloni pesanti e un paio di manopole di lana, sottraendoli a uno dei monaci morti. Ma non aveva un cappuccio per ripararsi la testa, soltanto una sciarpa legata sulla parte inferiore del viso. I suoi respiri erano nuvolette bianche nell’aria gelida.
Dovevano trovare un riparo.
Presto.
Painter porse una mano a Lisa, che, in un tratto particolarmente ripido, era finita col sedere per terra, scivolando fino a lui. Avevano raggiunto il fondo del passo. C’era una curva, incorniciata da pareti ripidissime.
Laggiù la neve fresca era già alta trenta centimetri.
Sarebbe stato difficile procedere senza racchette da neve.
Intuendo la sua preoccupazione, Painter indicò un punto su un lato dello stretto crepaccio. C’era una sporgenza rocciosa che offriva riparo dalle intemperie. Puntarono in quella direzione, avanzando a fatica tra i cumuli di neve.
Una volta raggiunto l’aggetto di pietra, fu più facile proseguire.
Lisa diede un’occhiata alle proprie spalle. Le loro orme si stavano già riempiendo di neve fresca. Entro qualche minuto sarebbero scomparse. Se da una parte ciò contribuiva sicuramente a nascondere le loro tracce a qualsiasi inseguitore, dall’altra la innervosiva. Era come se la loro stessa esistenza venisse cancellata.
«Hai idea di dove stiamo andando?» Si accorse di bisbigliare, non tanto per paura di rivelare la loro posizione, quanto perché era intimidita dalla cappa di silenzio della tormenta.
«Vagamente», rispose Painter. «Queste aree di confine sono un territorio inesplorato, in gran parte mai calpestato da un essere umano. Quando sono arrivato, ho studiato alcune immagini satellitari, ma non sono di grande utilità. Il territorio è troppo contorto, rende i rilevamenti difficili.» Proseguirono in silenzio per qualche passo, poi Painter si voltò a guardarla. «Lo sapevi che nel 1999 hanno scoperto Shangri-La, quassù?»
Lisa non riusciva a capire se stesse sorridendo dietro la sciarpa, cercando di sdrammatizzare. «La Shangri-La di Orizzonti perduti?» Ricordava il film e il libro. Un utopistico paradiso perduto, sospeso nel tempo e nel ghiaccio dell’Himalaya.
Voltandosi nuovamente, lui continuò ad avanzare e a spiegare. «Due esploratori del National Geographic hanno scoperto una gola dalla profondità mostruosa nella catena dell’Himalaya, a poche centinaia di chilometri da qui, nascosta sotto uno sperone roccioso: un luogo non indicato nelle mappe satellitari. In fondo c’era un paradiso subtropicale. Cascate, abeti e pini, prati pieni di rododendri, ruscelli che scorrevano tra abeti rossi e tsuga. Un giardino selvatico, che pullulava di vita, circondato da neve e ghiaccio in ogni direzione.»
«Shangri-La?»
Painter scrollò le spalle. «Dimostra soltanto che la scienza e i satelliti non sempre riescono a rivelare ciò che il mondo vuole nascondere.» Ormai batteva i denti. Anche parlare significava sprecare fiato e calore. Dovevano trovare la loro Shangri-La.
Proseguirono in silenzio. La neve divenne più fitta.
Dopo altri dieci minuti, il passo proseguiva con uno stretto tornante. Girato l’angolo, l’aggetto che li aveva riparati spariva. Si fermarono a guardare, disperati. Da quel punto il percorso era più ripido e più ampio. Davanti a loro, il mondo era una cortina di neve. Le occasionali folate di vento rivelavano scorci fluttuanti di una profonda vallata.