Anna fece altrettanto. Voltandogli in parte le spalle, il bestione parlò alla donna, in tedesco.
Painter si sforzò di ascoltare e riuscì a cogliere le ultime parole dell’uomo.
«… dovremmo ucciderli e basta.»
Non era detto con veemenza, solo con spaventosa praticità.
Anna non era d’accordo. «Dobbiamo scoprire di più, Gunther.» La donna lanciò un’occhiata fugace a Painter. «Sai quanti problemi abbiamo ultimamente. Se è stato mandato qui… Se sa qualcosa che può fermarla…»
Painter non aveva idea di cosa stessero parlando, ma era disposto a sfruttare quel malinteso. Soprattutto se serviva a tenerlo in vita.
Il sicario scosse la testa. «Quello puzza di guai lontano un chilometro.» Fece per andarsene, come se non avesse più importanza. Per lui la questione era chiusa.
Anna lo fermò, toccandogli la guancia, teneramente, con gratitudine… e forse qualcos’altro. «Danke, Gunther.»
Lui si allontanò, ma non prima che Painter notasse un lampo di dolore nei suoi occhi. Gunther camminò faticosamente sino alla parete di ghiaccio e scomparve attraverso una fessura. Un istante dopo comparvero una nuvola di vapore e una luce intensa, per poi svanire d’un tratto.
Una porta si era aperta e richiusa.
Alle spalle dell’uomo, una delle guardie emise un verso derisorio, brontolando una parola, un insulto, udibile soltanto nelle immediate vicinanze.
Leprakönig.
Re lebbroso.
Painter notò che la guardia aveva aspettato che il bestione fosse troppo lontano per sentire. Non aveva osato dirglielo in faccia. Ma, a giudicare dalle spalle ricurve del sicario e dai suoi modi burberi, Painter sospettò che se lo fosse sentito dire altre volte.
Anna risalì sulla motoslitta. Un’altra guardia armata prese il posto del killer, con l’arma puntata. Ripartirono.
Girarono attorno a uno sperone roccioso e scesero per un passo ancora più ripido. Davanti a loro c’era solo un mare di nebbia ghiacciata che oscurava la vista, sovrastato da una pesante cresta della montagna, bassa e incurvata come un paio di mani in cerca di calore.
Scesero nel vasto banco di nebbia, trafiggendolo con le luci.
In pochi istanti, la visibilità si ridusse a qualche decina di centimetri. Le stelle svanirono.
Poi, d’un tratto, l’oscurità divenne più profonda, mentre si addentravano nell’ombra dell’aggetto di roccia. Ma, anziché diventare più fredda, l’aria divenne notevolmente più calda. Mentre proseguivano la discesa, dalla neve cominciarono ad affiorare rocce e massi, attorno ai quali gocciolava neve sciolta.
Painter concluse che ci doveva essere una sacca di attività geotermica in quel punto. Rare sorgenti termali erano sparse qua e là nella catena dell’Himalaya. Create dall’intensa pressione tra la piattaforma continentale indiana e l’Asia, erano note soprattutto alle popolazioni indigene. Quelle sorgenti geotermiche erano ritenute la fonte del mito di Shangri-La.
Via via che la neve si assottigliava, il convoglio fu costretto ad abbandonare le motoslitte. Quando furono parcheggiate, Painter e Lisa furono slegati dallo slittino. Lui le restò vicino. Si scambiarono uno sguardo carico di preoccupazione.
Circondati da parka bianchi e fucili, furono condotti a piedi per il resto del tragitto. Sotto gli stivali, la neve lasciò il posto alla roccia bagnata. Comparvero scalini scolpiti nella pietra. Davanti a loro, la nebbia perpetua si assottigliò e si sfaldò.
Dopo pochi passi, una parete di roccia emerse dall’oscurità, riparata da una spalla della montagna. Era una grotta naturale. Ma non era un paradiso. C’era solo granito nero scosceso, che trasudava e gocciolava.
Somigliava più all’inferno che a Shangri-La.
Lisa inciampò accanto a lui. Painter la sostenne come poté, coi polsi legati, ma capì il perché di quel passo incerto.
Davanti a loro, un castello emergeva dalla foschia.
O, meglio, mezzo castello.
Avvicinandosi, Painter riconobbe in quella forma una facciata, scolpita sommariamente in fondo alla grotta. Due gigantesche torri merlate affiancavano un massiccio torrione centrale. Dietro spesse vetrate si vedevano luci accese.
«Granitschloß», annunciò Anna, facendo strada verso un’entrata ad arco, alta il doppio di Painter, fiancheggiata da giganteschi cavalieri di granito.
L’ingresso era sigillato da un pesante portone di legno di quercia, con borchie e sbarre di ferro nero; ma, mentre il gruppo si avvicinava, il portone si sollevò, aprendosi a saracinesca.
Anna proseguì a grandi passi. «Venite. È stata una lunga nottata.»
Painter e Lisa furono condotti all’entrata, col fucile puntato contro. Lui studiò la facciata, i bastioni, i parapetti e le finestre ad arco. L’intera superficie di granito nero trasudava umidità, gocciolava, lacrimava. L’acqua sembrava nera come petrolio, come se il castello si stesse dissolvendo davanti ai loro occhi, tornando a fondersi nella parete di roccia.
L’intensa illuminazione proveniente da alcune delle finestre conferiva alla facciata del castello una luminescenza infernale, ricordandogli un dipinto di Hieronymus Bosch. L’artista del XV secolo si era specializzato in rappresentazioni perverse dell’inferno. Se Bosch avesse mai scolpito le porte degli inferi, le avrebbe fatte come quel castello.
Non avendo altra scelta, Painter seguì Anna e attraversò l’entrata ad arco del castello. Guardò su, cercando le parole che, secondo Dante, erano scolpite all’ingresso dell’inferno: Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.
Le parole non c’erano, ma era come se ci fossero.
Lasciate ogni speranza…
La frase riassumeva bene la situazione.
Copenhagen, Danimarca,
ore 20.15
Mentre l’eco dell’esplosione si disperdeva, Gray prese Fiona per un braccio e la trascinò fuori da una porta laterale della pasticceria francese. Puntò verso un vicolo lì vicino, facendosi largo tra i clienti radunati sul marciapiede.
In lontananza cominciarono a urlare le sirene. Ai vigili del fuoco di Copenhagen, quella dovette sembrare una giornata interminabile.
Gray raggiunse l’angolo del vicolo, lontano dal fumo e dal caos, con Fiona al seguito. Sentì un mattone spezzarsi accanto all’orecchio, seguito da un rimbalzo sibilante. Un proiettile. Girando su se stesso, spinse Fiona nel vicolo e si acquattò, scrutando la strada alla ricerca del tiratore.
Anzi la tiratrice.
Era vicina. Mezzo isolato più indietro, sul lato opposto della strada.
Era la donna albina dell’asta. La differenza era che portava una tuta aderente nera e aveva anche acquisito un nuovo accessorio alla moda: una pistola col silenziatore. La teneva bassa, accanto al ginocchio, mentre avanzava a grandi passi verso la loro posizione. Si toccò un orecchio, muovendo le labbra.
Aveva una radio.
Quando la donna passò sotto un lampione, Gray si accorse dell’errore: non era la stessa donna dell’asta. Aveva i capelli più lunghi e il viso più scarno.
Doveva essere una sorella maggiore dei due gemelli.
Gray si rimise in movimento. Pensava che Fiona fosse già a metà del vicolo, ma la trovò a cinque metri da lui, in sella a una Vespa verdina arrugginita. «Che stai…»
«Abbiamo trovato un passaggio», lo interruppe, riponendo un cacciavite nella borsetta.
Gray le fu accanto in un istante. «Non c’è tempo di farla partire.»
Fiona gli lanciò un’occhiata fugace, mentre maneggiava un groviglio di fili dell’accensione. Ne intrecciò un paio e il motore si mise a tossire, e infine partì.
La ragazza era brava, ma c’erano limiti alla fiducia.
Gray le fece cenno di farsi indietro. «Guido io.»
Fiona scrollò le spalle e scivolò sul sellino posteriore.
Gray montò in sella, abbassò il cavalletto e sparò il motore a manetta. Col fanale spento, si lanciò nel vicolo buio… o, meglio, avanzò trotterellando.