Perciò avevano messo in circolazione alcune voci, come esca.

Dovevano soltanto piazzare la trappola.

Un laptop era collegato ai sistemi di comunicazione del castello. Painter ci si era inserito utilizzando le password fornitegli da Gunther e aveva inviato una serie di pacchetti di codici compressi, che avevano lo scopo di monitorare tutte le comunicazioni in uscita dal sistema. Se il sabotatore avesse cercato di comunicare col mondo esterno, sarebbe stato scoperto, rivelando anche la sua posizione. Ma Painter non si aspettava che fosse così maldestro: quella persona era sopravvissuta operando in segreto molto a lungo, il che presupponeva una notevole astuzia e un mezzo di comunicazione indipendente dalla rete principale del castello.

Per quel motivo Painter aveva costruito qualcosa di nuovo.

Il sabotatore doveva essersi procurato un telefono satellitare portatile, per comunicare in segreto coi suoi superiori. Ma un telefono di quel tipo doveva essere utilizzato in un’area senza ostacoli frapposti tra l’antenna e il satellite in orbita geostazionaria. Purtroppo c’erano innumerevoli nicchie, finestre e botole di servizio che si prestavano allo scopo, troppe per poterle sorvegliare senza destare sospetti. Perciò ci voleva un’alternativa.

Painter controllò l’amplificatore di segnale che aveva collegato al filo di messa a terra. Era un dispositivo che aveva progettato lui stesso, alla Sigma. Prima di diventarne il direttore, le sua specialità erano la sorveglianza e la microingegneria. Giocava in casa.

L’amplificatore collegava il filo di messa a terra al secondo laptop.

«Dovrebbe essere pronto», disse Painter, mentre la sua emicrania cominciava finalmente a diminuire.

«Vediamo se funziona.»

Painter accese l’alimentazione a batteria, impostò l’ampiezza del segnale e regolò la velocità degli impulsi. Il laptop avrebbe fatto il resto, monitorando eventuali trasmissioni. Era quantomeno rudimentale e non consentiva di ascoltare il contenuto delle comunicazioni: poteva soltanto individuare la posizione del segnale di una trasmissione illecita, con un margine d’errore di trenta metri. Probabilmente sarebbe stato sufficiente.

Painter ultimò le regolazioni dell’apparecchiatura. «Tutto a posto. Adesso non ci resta che aspettare che il bastardo faccia una chiamata.»

Gunther annuì.

«Sempre che abbocchi», aggiunse Painter.

Mezz’ora prima, avevano sparso la voce che una scorta di Xerum 525 era sopravvissuta all’esplosione, chiusa in un caveau segreto rivestito di piombo. Era una speranza per tutta la popolazione del castello: se c’era ancora un po’ dell’insostituibile sostanza, forse si poteva fabbricare una nuova Campana. Anna aveva persino ordinato ai ricercatori di assemblarne una nuova con pezzi di ricambio. Se non la cura per quella malattia progressiva, la Campana offriva quantomeno un po’ di tempo in più. A tutti loro.

In ogni caso, lo scopo di quello stratagemma non era fomentare la speranza. La notizia doveva raggiungere il sabotatore, che si sarebbe convinto che il suo piano era fallito. Quindi avrebbe dovuto fare una chiamata, per chiedere istruzioni ai suoi superiori.

E, a quel punto, Painter sarebbe stato pronto. Si voltò verso Gunther. «Come ci si sente a essere un superuomo? Un Cavaliere del Re-Sole?»

Gunther scrollò le spalle. La sua parlantina non sembrava andare oltre grugniti, occhiatacce e qualche risposta monosillabica.

«Voglio dire, ti senti superiore? Più forte, più veloce, capace di scavalcare edifici con un balzo?»

Gunther si limitò a fissarlo.

Painter sospirò, provando un altro approccio per farlo parlare, per creare un qualche tipo di comunicazione. «Che cosa significa Leprakönig? Ho sentito qualcuno usare quella parola, vedendoti.»

Painter sapeva dannatamente bene che cosa significava, ma ebbe la reazione che voleva. Gunther distolse lo sguardo, ma lui notò il lampo nei suoi occhi. Il silenzio si protrasse. Painter non era sicuro che l’uomo avrebbe parlato.

«Re lebbroso», borbottò infine Gunther.

A quel punto toccava a Painter restare in silenzio. Lasciò che il peso di quelle parole gravasse sulla stanza.

Alla fine Gunther cedette. «Quando si cerca la perfezione, nessuno vuole assistere ai fallimenti. Se la follia non s’impadronisce di noi, la malattia è orribile a vedersi. Meglio essere chiusi da qualche parte, nascosti alla vista di tutti.»

«In esilio, come lebbrosi.»

Painter cercò di immaginare come ci si potesse sentire a crescere così, ultimo dei Sonnenkönige, sapendo fin da giovani di avere il destino segnato. Un tempo una riverita dinastia di principi, poi una dinastia di invalidi, evitati da tutti.

«Eppure tu continui a dare una mano, qui», commentò Painter. «Sei ancora in servizio.»

«È per questo che sono nato. So qual è il mio dovere.»

Painter si chiese se era una cosa che era stata inculcata a tutti quanti in una specie di addestramento oppure trasmessa geneticamente. Ma intuiva pure che c’era di più. Che cosa, però? «Perché ti dovrebbe importare di ciò che succederà a tutti noi?»

«Credo nel lavoro che facciamo. Le mie sofferenze risparmieranno ad altri di subire lo stesso destino.»

«E la ricerca di una cura, in questo momento? Non ha nulla a che vedere col prolungamento della tua vita.»

Ci fu un lampo negli occhi di Gunther. «Ich bin nicht krank.»

«In che senso non sei malato?»

«I Sonnenkönige sono nati sotto la Campana», rispose Gunther, stizzito.

D’un tratto Painter capì. Si ricordò quanto aveva detto Anna dei superuomini del castello: erano resistenti a qualsiasi altra manipolazione tramite la Campana, in meglio o in peggio. «Tu sei immune.»

Gunther distolse lo sguardo.

Painter rifletté sulle implicazioni di quella situazione. Non era l’autoconservazione che spingeva Gunther a dare una mano.

E allora cosa?

Improvvisamente Painter ricordò il modo in cui Anna aveva guardato Gunther, a tavola. Con caloroso affetto. L’uomo non l’aveva scoraggiata. Evidentemente aveva un’altra ragione per continuare a cooperare, nonostante la mancanza di rispetto da parte degli altri.

«Tu ami Anna», pensò Painter ad alta voce.

«Certo», ribatté lui brusco. «È mia sorella.»

Rintanata nello studio di Anna, Lisa era in piedi accanto a un visore a parete. Normalmente, quel tipo di apparecchio serviva a illuminare le radiografie dei pazienti, ma Lisa ci aveva inserito due fogli di acetato che riportavano alcune righe nere. Erano mappe di cromosomi prelevate dalla documentazione sulle mutazioni causate dalla Campana, immagini del DNA fetale prima e dopo l’esposizione, ottenute mediante amniocentesi. I cromosomi trasformati dalla Campana erano cerchiati e accanto c’erano annotazioni in tedesco.

Anna le aveva tradotte e poi era andata a prendere altri libri.

Accanto al visore, Lisa scorse con un dito le mutazioni, alla ricerca di uno schema comune. Aveva esaminato diversi casi, ma sembrava che non ci fosse nessun criterio.

Senza una risposta, ritornò al tavolo da pranzo, sul quale erano ammassati libri e voluminosi fascicoli di dati scientifici: la ricostruzione di decenni di sperimentazioni su esseri umani.

Il fuoco del camino crepitava dietro di lei. Dovette trattenere l’impulso di gettare alle fiamme tutti quei documenti. Ma probabilmente non l’avrebbe fatto neanche se Anna non fosse mai tornata. Lisa era andata in Nepal per studiare gli effetti fisiologici delle altitudini elevate. Sebbene fosse un medico, aveva la vocazione della ricercatrice.

Come Anna.

No, non esattamente come Anna.

Scostò una monografia intitolata Teratogenesi nel blastoderma embrionico. La ricerca era legata ai mostruosi aborti prodotti dall’esposizione alle radiazioni della Campana. Ciò che le strisce nere sull’acetato delineavano con distacco clinico, era rivelato nei dettagli più orribili dalle fotografie del libro: embrioni privi di arti, feti ciclopici, bambini idrocefali nati morti.


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