«Qualcuno mi tiri su questa fottuta cerniera!»urlai. «Devo schizzare giù alla Borgata!»
Una delle ragazze fu così gentile da aiutarmi. Compresi immediatamente perché indossare quella roba non fosse uno scherzo. Il pulciaio era provvisto di aria condizionata, come tutta la parte sotterranea di Joyland, ma ero già madido di sudore.
Uno dei vecchi dipendenti si avvicinò, sferrandomi una pacca amichevole sulla testa coperta dalla maschera. «Ti darò un passaggio. Il mio macinino è laggiù. Salta a bordo.»
«Grazie.» La voce risuonò soffocata.
«Bau bau, Fido», aggiunse qualcuno, e tutti scoppiarono a ridere.
Sfrecciammo lungo il Corso tra lo sfarfallio spettrale delle luci al neon, un vecchio raggrinzito in divisa verde da spazzino e un enorme pastore tedesco con gli occhi azzurri al suo fianco. Si fermò davanti alle scale segnalate da una freccia, con l’indicazione BORGATA INCANTATA dipinta sulla parete di cemento. «Non parlare mai», mi suggerì. «Howie sta sempre zitto, limitandosi ad abbracciare i piccoli e accarezzarli sulla testa. Buona fortuna, e se inizia a girarti la cocuzza, taglia la corda. Ai bambini non piacerebbe se il loro eroe crollasse a terra, stecchito da un colpo di calore.»
«Non ho idea di che cosa devo fare», confessai. «Nessuno me l’ha spiegato.»
Forse quel tipo non era un figlio del carrozzone, ma su Joyland sembrava saperla lunga. «Non importa. I piccolini adorano Howie. Ci penseranno loro.»
Scesi dal trabiccolo, quasi inciampai nella coda e me la levai di torno dando un forte strattone al filo fissato alla zampa sinistra. Caracollai su per le scale, armeggiando con la maniglia della porta in cima. Sentivo la musica, un motivo di quando ero bambino. Alla fine riuscii a uscire. La vivida luce di giugno colpì gli occhi di rete della maschera, abbagliandomi per un istante.
Il suono si fece più forte, diffuso dagli altoparlanti sopra di me, e riconobbi la canzone. Era l’hokey pokey, la filastrocca ballata in tutti gli asili della nazione. Attorno a me, altalene, dondoli, scivoli, una complicata struttura di metallo su cui arrampicarsi e una piccola giostra azionata a forza di braccia da un pivello con lunghe orecchie pelose da coniglio e una coda a batuffolo appiccicata sul sedere.
Il Ciuffolo, un trenino in grado di raggiungere l’inaudita velocità di sei chilometri orari, girava in tondo sbuffando fumo, carico di bambini che salutavano i genitori intenti a fotografarli. Miliardi di ragazzini correvano in ogni direzione, sorvegliati da un buon numero di lavoranti stagionali e da un paio di dipendenti a tempo pieno che forseavevano un’abilitazione come vigilatori. I due, un uomo e una donna, indossavano una felpa con la scritta CI PIACCIONO I CUCCIOLI FELICI. Davanti a me la Cuccia di Howie, l’edificio dove i piccoli venivano accuditi.
Scorsi il signor Easterbrook. Era seduto su una panchina sotto un’ombrellone pubblicitario di Joyland, con il suo completo da impresario di pompe funebri e un paio di bacchette per il pranzo. Non mi notò subito, intento a osservare una doppia fila di marmocchi condotta verso la Cuccia da un paio di pivelli. Come scoprii con il passare del tempo, i genitori potevano lasciarli lì dentro per un massimo di due ore mentre accompagnavano i ragazzini più grandi sulle attrazioni o mangiavano un boccone all’ Aragosta Rock.
In seguito venni a sapere che nella Cuccia di Howie erano ammessi i bambini da tre a sei anni. Molti di quelli che si stavano avvicinando in quel momento erano piuttosto tranquilli, forse perché abituati a essere affidati alla cura di estranei mentre i genitori lavoravano. Altri non sembravano così contenti. Magari all’inizio avevano fatto gli ometti, all’annuncio che mamma e papà sarebbero ritornati nel giro di un’ora o due (come se un microbo di quattro anni avesse davvero la nozione del tempo), ma adesso si ritrovavano tutti soli in un mondo caotico pieno di volti sconosciuti, con il padre e la madre scomparsi nel nulla. Alcuni stavano piangendo. Soffocato dal costume, sudato come un maiale, osservai attraverso gli occhi di rete una forma di violenza sui minori tipicamente americana. Perché una persona sana di mente avrebbe dovuto trascinare nella baraonda del parco i propri figli (i propri figli piccoli, Dio santo!) per poi sbolognarli a una strana compagine di babysitter, anche se per poco?
I pivelli vedevano chiaramente le lacrime dei poverini (l’ansia da abbandono è una vera malattia infantile, non diversa dal morbillo), ma era chiaro che non sapevano come reagire. Era inevitabile. Si trattava del loro primo giorno, ed erano stati gettati allo sbaraglio senza alcuna preparazione; mi ero trovato nella stessa situazione quando Lane Hardy si era volatilizzato, affidandomi l’incarico di manovrare una gigantesca ruota panoramica. Almeno i ragazzini sotto gli otto anni non possono salirci senza un adulto, pensai. Questi piccolini sono soli soletti.
Anch’io non avevo idea di come comportarmi, ma non avevo intenzione di restare con le mani in mano. Mi incamminai verso la fila di bambini, alzando le zampe anteriori e dimenando vorticosamente la coda (non ero in grado di vederla ma riuscivo a sentirla). Non appena i primi due o tre mi scorsero e mi indicarono, venni colto da un’ispirazione. Merito della musica. Mi fermai all’incrocio tra Via Toffoletta e Corso Caramella, esattamente sotto due altoparlanti al massimo del volume. Alto quasi due metri, dalle zampe posteriori alle orecchie a punta, dovevo fare una certa impressione. Salutai con un inchino i marmocchi, che mi fissavano con la bocca spalancata e gli occhioni sgranati, e cominciai a ballare l’hokey pokey.
La tristezza e lo sgomento provocati dalla fuga dei genitori vennero presto dimenticati. I miei piccoli spettatori scoppiarono a ridere, alcuni con le lacrime che ancora luccicavano sul volto. Mentre ero impegnato nella mia goffa danza, non trovarono il coraggio di farsi sotto, ma mi accerchiarono in massa. Avevano lo sguardo scintillante di stupore, non di paura. Tutti loro conoscevano Howie; quelli che abitavano in Carolina seguivano religiosamente il suo programma pomeridiano, e anche chi veniva da posti lontani come St. Louis e Omaha aveva visto i volantini promozionali e le pubblicità durante i cartoni animati del sabato mattina. Sapevano che era un cane grossoma buono.Non li avrebbe mai morsi: era un loro amico.
Mi stavo impegnando: zampa sinistra dentro, zampa sinistra fuori, poi di nuovo dentro, per scuoterla co-sì. Ballai l’hokey pokey e mi girai, oh-sì, perché il gioco è tutto-qui, come conosceva a memoria qualsiasi bimbette d’America. Dimenticai la temperatura bollente e la sensazione di soffocare. I boxer mi si erano infilati tra le chiappe, ma non ci badai. Dopo, per colpa del caldo, sarei stato torturato da un mal di testa formato gigante, ma in quel momento me la godevo davvero. E sapete la novità? Non pensai nemmeno una volta a Wendy Keegan.
Quando si passò alla sigla di Sesamo apriti, mi bloccai e appoggiai a terra il ginocchio imbottito del costume, spalancando le braccia come Al Jolson ne Il cantante di jazz.
«Howieeee!»gridò una bambina. Dopo tutto il tempo che è passato, ho ancora nelle orecchie il tono estasiato della sua voce. Mi corse incontro, la gonnellina rosa che le svolazzava attorno alle ginocchia paffute. Il resto venne di conseguenza. La doppia fila ordinata si sciolse all’improvviso.
I piccolini adorano Howie. Ci penseranno loro.Quel dipendente ci aveva visto giusto. Prima mi saltarono addosso, buttandomi a terra, poi mi circondarono, abbracciandomi e ridendo. La fan vestita di rosa mi coprì il muso di baci, continuando a strillare: «Howie, Howie, Howie!»
I genitori che si erano avventurati nella Borgata per scattare qualche fotografia si avvicinarono, stregati dallo stesso fascino. Mi dimenai per farmi un po’ di spazio, mi girai su un fianco e mi alzai, prima che mi schiacciassero con il loro affetto che peraltro ricambiavo. Era una giornata torrida ma mi sentivo fresco come rosa.