Muschio aveva un naso lungo lungo, labbra sottili ed era sdentata; su una guancia spiccava una verruca grossa come un nocciolo di ciliegia; i suoi capelli grigi erano un solo, indescrivibile garbuglio di ricci e di nodi magici; e aveva un afrore forte e pungente, profondo e complesso come quello di una tana di volpe. «Carina, vieni con me nella foresta!» dicevano le vecchie streghe nelle favole che si raccontavano ai bambini di Gont. «Vieni con me, che ti mostrerò qualcosa di bello!» E poi la strega ficcava la bambina nel forno, la arrostiva ben bene e se la mangiava, o la trasformava in mostro e la gettava nel pozzo, dove poi la poverina gracidava e saltava, triste e disperata, per tutta l’eternità, o la metteva a dormire per cent’anni dentro una grande pietra, finché non giungeva il Figlio del Re, il Principe Mago, che con una sola parola spezzava la pietra, con un bacio ridestava la giovane e poi uccideva la strega cattiva…
«Vieni con me, cara!» E portava la bambina nei campi e le mostrava un nido di allodola in mezzo al verde del grano, la portava nella palude per raccogliere funghi, menta selvatica e mirtilli. Non aveva bisogno di chiudere la bambina nel forno, di trasformarla in un mostro o di sigillarla nella pietra. Gliel’avevano già fatto.
Muschio era gentile con Therru e la viziava; quando erano insieme, le parlava a lungo. Tenar non sapeva che cosa la strega raccontasse o insegnasse alla bambina, e se dovesse permetterle di riempirle la testa dei suoi insegnamenti. Debole come la magia delle donne, perfido come la magia delle donne, le avevano detto centinaia di volte. E in effetti Tenar aveva visto quanto la magia di donne come Muschio o Edera avesse, spesso, poco senso e a volte fosse addirittura malvagia, intenzionalmente o per ignoranza. Le streghe di villaggio, anche se conoscevano molte formule e molti incantesimi e alcuni dei grandi canti, non conoscevano mai le Grandi Arti e i princìpi della magia. Nessuna donna riceveva quel genere di insegnamenti. L’alta magia era un lavoro per uomini, richiedeva capacità maschili; l’alta magia era fatta da uomini. Non c’era mai stato un mago di sesso femminile. Anche se alcune donne si erano date il nome di maga o incantatrice, il loro Potere non era addestrato, era una forza priva di arte e conoscenza, per metà superficiale, per l’altra metà pericolosa.
Le comuni streghe di villaggio, come Muschio, campavano su alcune parole della Lingua Vera tramandate come un grande tesoro da streghe più anziane, o comprate a caro prezzo dai maghi, oltre che su un certo numero di incantesimi banali per trovare e per riparare, e molti rituali inutili che servivano solo a fare impressione sugli altri, una buona esperienza come levatrici, come conciaossa, e nel curare le malattie degli uomini e degli animali, una buona conoscenza delle erbe unita a un mucchio di superstizioni… il tutto in aggiunta a eventuali doti naturali di curare, incantare, cambiare forma o fare fatture. Una simile miscela poteva essere indifferentemente buona o cattiva. Alcune streghe erano donne cattive e amareggiate, pronte a fare del male e prive di ragioni che impedissero loro di farne. In genere erano levatrici e guaritrici con in più qualche pozione amorosa, qualche incantesimo per la fertilità e contro l’impotenza, e un fondamento di recondito cinismo. Alcune, quelle che disponevano di una certa dose di saggezza istintiva, usavano il loro dono solamente per fare del bene, anche se non avrebbero saputo spiegare, diversamente da qualsiasi apprendista mago, il motivo delle loro azioni, e ciarlavano dell’Equilibrio e della Via del Potere per giustificare le loro azioni o le loro rinunce. «Io seguo il mio cuore», aveva detto una di queste donne a Tenar, che allora era l’allieva e la protetta di Ogion. «Lord Ogion è un grande mago. Vi fa un grande onore, insegnandovi. Ma guardate dentro di voi, bambina, e vedrete che quel che vi insegna è, in fondo, seguire il vostro cuore.»
Tenar già allora aveva pensato che la donna avesse ragione, ma non del tutto; oltre a quello, ci doveva essere anche dell’altro, e ne era tuttora convinta.
Ora, mentre guardava Muschio e Therru, pensò che Muschio seguiva il proprio cuore, ma che era un cuore scuro, selvatico, strano come quello di un corvo: un cuore che badava comunque ad assecondare i propri interessi. E pensò che ad attrarre Muschio non era solo la compassione per Therru, ma la sventura della bambina, il male che le era stato fatto con la violenza e con il fuoco.
Nulla di ciò che Therru faceva o diceva, però, sembrava frutto degli insegnamenti di Zia Muschio, se non il modo per scoprire il nido dell’allodola o individuare il luogo in cui raccogliere i mirtilli, oppure la maniera per fare il ripiglino con una mano sola. La mano destra di Therru era stata talmente consumata dal fuoco che, quando si era rimarginata, le era rimasto solo il pollice, e lei lo usava come una chela di granchio. Ma Zia Muschio aveva una sorprendente quantità di figure di ripiglino per quattro dita e un pollice, ciascuna con la sua poesiola:
Batti batti abbatti tutto!
Brucia brucia interra tutto!
Vieni, drago, vieni!
e il cordino formava quattro triangoli che si trasformavano in un quadrato… Therru non cantava mai i versetti, ma Tenar glieli sentiva bisbigliare mentre giocava da sola, con il cordino, seduta sulla soglia della casa di Ogion.
E, si chiedeva Tenar, quale legame univa lei, lei stessa, alla bambina, oltre alla pietà e al dovere di aiutare gli infelici? Se non l’avesse presa Tenar, Lodola l’avrebbe voluta con sé. Ma Tenar l’aveva presa con sé senza neppure chiedersene la ragione. Aveva seguito il proprio cuore? Ogion non le aveva chiesto niente della bambina, ma aveva detto: «Impareranno a temerla…» E Tenar aveva risposto: «La temono già adesso», ed era vero. Forse lei stessa aveva temuto la bambina, perché temeva la violenza e il fuoco. Era il timore, il legame che la univa a lei?
«Goha», disse Therru, seduta sui calcagni, sotto il pesco, lo sguardo fisso sul punto dove aveva piantato il nocciolo di pesca nel duro terreno estivo. «Che cosa sono i draghi?»
«Grandi creature», spiegò Tenar, «simili alle lucertole, ma lunghe più di una nave, più di una casa. Hanno le ali come gli uccelli, e soffiano fuoco dalla bocca.»
«Vengono qui?»
«No», rispose Tenar.
Therru non fece altre domande.
«È stata Zia Muschio a parlarti dei draghi?» chiese Tenar.
Therru scosse la testa. «Sei stata tu», disse.
«Ah», rispose Tenar. E, dopo qualche istante: «La pesca che hai piantato ha bisogno di acqua per poter crescere. Una volta al giorno, finché non arriverà la stagione delle piogge».
Therru si alzò in piedi e trotterellò fino al pozzo che si trovava dietro la casa. Gambe e piedi della bambina erano perfetti, indenni. A Tenar piaceva vederla correre o camminare: era bello vedere quei piccoli piedi, scuri e impolverati, che si alzavano e si abbassavano sul terreno. La bambina tornò con l’innaffiatoio di Ogion, curva sotto il suo peso, e versò un filo d’acqua sulla piantina.
«Allora, ti ricordi la storia di quando uomini e draghi erano una sola razza», disse Tenar. «Parlava di come gli uomini sono giunti qui, mentre i draghi sono rimasti nelle lontane Isole Occidentali. Molto, molto lontano.»
Therru annuì. Pareva che non prestasse attenzione, ma quando Tenar, dicendo «isole dell’Occidente», puntò la mano verso il mare, la bambina si voltò a guardare l’alto, chiaro orizzonte che si vedeva tra i paletti dell’orto di fagioli e la capanna della mungitura.
Sul tetto della capanna comparve una capra, che si fermò di profilo rispetto a loro, la testa nobilmente levata; sembrava convinta di essere uno stambecco.
«Sippy è di nuovo uscita», disse Tenar.
«Hess! Hess!» cominciò a fare Therru, imitando il richiamo di Erica; e la stessa Erica comparve accanto al cancello dell’orto, e si mise a fare «Hess!» alla capra, che tuttavia la ignorò per continuare ad adocchiare i fagioli.