Tenar le lasciò giocare ad «acchiappa-Sippy». Attraversò il filare di fagioli e si diresse verso il ciglio del burrone, per poi mettersi a passeggiare su di esso. La casa di Ogion era la più lontana dal villaggio e la più vicina al Precipizio che, in realtà, vicino al villaggio era solo un pendio coperto d’erba, interrotto da sporgenze di roccia dove potevano pascolare le capre. Andando a nord, invece, il pendio diventava sempre più ripido, finché non diventava un vero e proprio strapiombo; percorrendo il sentiero, si vedeva affiorare progressivamente la roccia dalla terra finché, a circa un miglio dal villaggio, la sporgenza si riduceva a una stretta cornice di arenaria rossa, sospesa sul mare che ne erodeva la base duemila piedi più sotto.

A quell’estremità del Precipizio crescevano solo pochi licheni e muschi, e qua e là una viola raggrinzita dal vento, come un bottone caduto sulla pietra scabra ed erosa. Andando invece dal ciglio verso l’interno dell’isola, a nord e a est, dietro una stretta fascia di paludi, si innalzava la scura e tremenda pendice del Monte di Gont, coperto di foresta fino alla cima. La rupe era cosi alta al di sopra della baia che occorreva sporgersi per vedere la costa e la pianura di Essary. Al di là di quelle, a sud e a ovest, c’erano solo cielo e mare.

Durante gli anni trascorsi a Re Albi, a Tenar era sempre piaciuto recarsi in quel luogo. Ogion amava le foreste, ma lei era vissuta in un deserto dove gli unici alberi nel giro di cento miglia erano quelli di un frutteto di meli e di peschi rachitici, che dovevano essere bagnati a mano nel corso di estati interminabili, dove nulla cresceva verde, umido e con facilità, dove non c’era nulla al di fuori della montagna, di una grande pianura e del cielo: Tenar preferiva quindi il ciglio del Precipizio al bosco avvolgente. Preferiva non avere alcunché sopra la testa.

Anche i licheni, il muschio grigio, le viole senza stelo le erano cari; erano presenze familiari. Si sedette sulla roccia, a poca distanza dall’orlo del Precipizio, e fissò il mare come faceva un tempo. Il sole era caldo, ma la brezza, che soffiava senza interruzione, le rinfrescava il viso e le braccia. Appoggiò le mani a terra e non pensò a niente: il sole, l’aria, il cielo e il mare colmavano tutto il suo essere, la rendevano trasparente a sole, aria, cielo, mare. Ma la mano sinistra le ricordò la propria esistenza, e lei si girò a guardare che cosa le pungeva il palmo. Era un piccolo cardo, nascosto in una fessura della pietra, che levava alla luce e all’aria le sue spine sottili. Si inclinava rigidamente al soffio del vento, e gli si opponeva, con le radici sprofondate nella roccia. Tenar lo osservò a lungo.

Quando tornò a guardare in direzione del mare, scorse una linea più blu sul blu del cielo e delle acque. Il profilo di un’isola: Oranéa, la più orientale delle Isole Interne.

Fissò quella debole forma di sogno, e si perse in una fantasticheria, finché lo sguardo non le cadde su un uccello che veniva da ovest e che volava sul mare. Non era un gabbiano, perché volava senza mai cambiare direzione, ed era troppo in alto per essere un pellicano. Che fosse un’oca selvatica o un albatro, il grande, raro trasvolatore degli oceani aperti, venuto sulle isole? Osservò il lento battito delle ali, lontano, nell’aria talmente chiara da ferire gli occhi. Poi si alzò e indietreggiò un poco, senza fiato e con il cuore che le batteva all’impazzata, e osservò il corpo sinuoso, scuro come il ferro, sostenuto da ampie ali rosse come il fuoco, i lunghi artigli, le spire di fumo che svanivano dietro di lui nell’aria.

Il drago volava verso Gont, direttamente verso il Grande Precipizio, direttamente verso di lei. Tenar vide lo scintillio delle scaglie scure e il balenio del grande occhio. Scorse la rossa lingua che era una lingua di fiamma. L’odore di bruciato riempì l’aria quando il drago, con un ruggito, si girò per posarsi sulla cengia di roccia ed emise un sospiro di fuoco.

Con un forte rumore metallico, le zampe del drago urtarono la pietra. La coda munita di aculei si contorse e risuonò come quella di un serpente a sonagli, e le ali, la cui trasparenza scarlatta lasciava filtrare la luce del sole, frusciarono e mossero l’aria come giganteschi ventagli nel ripiegarsi contro i fianchi corazzati. Poi il drago voltò lentamente la testa e guardò la donna ferma sulla cengia, a portata dei suoi artigli affilati come falci. Tenar ricambiò il suo sguardo, avvertendo il calore del corpo dell’animale.

Le avevano sempre detto che non si deve mai fissare un drago negli occhi, ma lei ignorò l’avvertimento. Gli occhi del drago erano gialli ed enormi, molto distanziati tra loro e protetti dalla cresta della corazza; sotto gli occhi, Tenar scorse il muso affilato e le froge rosse e fumanti. Il drago la fissava, ma la donna non abbassò gli occhi neri né girò altrove il piccolo viso, mantenendo la sua espressione dolce e tranquilla.

Nessuno dei due parlò.

Il drago scostò di lato la testa, per non distruggere la donna con il suo fiato, ed emise un grande «Aah!» di fiamma arancione, che forse era un sospiro, forse una risata.

Poi si piegò sulle ginocchia e questa volta parlò davvero, ma non si rivolse alla donna.

«Ahivaraihe, Ged», disse, con voce sommessa, tra una nuvoletta di fumo e un guizzo della sua lingua di fiamma; poi abbassò la testa.

E allora, per la prima volta, Tenar vide l’uomo seduto sul suo dorso, nell’incavo tra due delle grandi spine che gli correvano lungo la schiena, sopra l’attaccatura delle ali. Con le mani, l’uomo si teneva alle squame color ruggine del collo, e appoggiava la testa alla spina, lunga e appuntita come una spada, come se dormisse.

«Ahi eheraihe, Ged!» disse il drago, un poco più forte. La sua lunga bocca pareva sempre sorridere; vi si scorgevano denti lunghi come l’avambraccio della stessa Tenar, giallo-avorio e con la punta acuminata e bianca.

L’uomo non si mosse.

Il drago voltò la lunga testa e guardò Tenar.

«Sobriost», le disse, con un fruscio simile a quello dell’acciaio che scivola sull’acciaio.

Tenar conosceva quella parola della Lingua della Creazione. Ogion le aveva insegnato tutte le parole che lei era disposta a imparare. «Sali», le aveva detto il drago. «Monta.» E Tenar scorse gli scalini su cui doveva salire: la zampa con i suoi artigli, il gomito piegato, la spalla, il muscolo dell’ala; quattro scalini.

Anche lei disse «Aah», ma senza ridere, e solo per riprendere il fiato che pareva bloccarsi in gola; abbassò poi la testa, perché se la sentiva girare. Infine avanzò, passando dinanzi agli artigli, alla lunga bocca priva di labbra e al largo occhio giallo, e salì sulla spalla del drago. Sollevò il braccio dell’uomo. Questi non si mosse, ma certamente era vivo, perché il drago l’aveva portato laggiù e gli aveva parlato. «Su», gli disse Tenar; poi, dopo avergli sciolto la stretta della mano sinistra con cui continuava a tenersi alle squame, aggiunse: «Su, Ged. Vieni…»

L’uomo sollevò leggermente la testa. Aveva gli occhi aperti, ma vuoti. Tenar dovette arrampicarsi sul dorso del drago, graffiandosi le gambe sulle sue scaglie, e staccare la mano destra dell’uomo da una sporgenza ossea, alla base della spina. Lo afferrò per le braccia e lo trascinò lungo i quattro scalini del drago giungendo così a terra.

L’uomo si riprese un poco e cercò di aggrapparsi a Tenar, ma era completamente privo di forze: scivolò quindi sulla roccia come un sacco vuoto, e non si mosse più.

Il drago voltò l’immensa testa e — con un gesto del tutto animalesco — toccò con la punta del muso il corpo dell’uomo, e l’annusò.

Poi risollevò il capo, e, con un forte rumore metallico, anche le sue ali si mossero. Allontanò la zampa da Ged, spostandola verso il ciglio del Precipizio. Poi girò di nuovo la testa verso Tenar e disse, con una voce simile al secco ruggito delle fiamme di una fornace: «Thesse Kalessin».


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