La fecero girare di fianco e le appoggiarono alla colonna vertebrale un anestizzatore elettronico. Cordelia sentì un fremito, e i suoi piedi freddi sembrarono improvvisamente caldi. Le sue gambe erano diventate inerti come sacchi di lardo.

— Può sentire questo? — chiese il Dr. Ritter.

— Questo cosa?

— Bene. — Lui annuì verso il tecnico, e la rimisero in posizione supina. Il tecnico le mise un telo sulle gambe e le scoprì l’addome, quindi accese il campo sterilizzatore. Il chirurgo cominciò a palparla, con gli occhi fissi sui monitor olovisivi che gli davano la posizione tridimensionale del feto dentro di lei.

— È sicura che non preferirebbe essere addormentata? — le chiese il Dr. Ritter per l’ennesima volta.

— No. Voglio guardare. Questo è il mio primo figlio. — E forse anche l’ultimo.

Lui sorrise, paziente. — Brava ragazza.

Ragazza. Oh, Cristo, sono più vecchia di te. Qualcosa le diceva che il Dr. Ritter preferiva non essere guardato dal paziente. Magari era di quelli che in sala operatoria parlavano dei fatti loro, pettegolezzi sui colleghi, freddure spinte sulle infermiere, e ogni tanto uno spassionato commento casuale sul corpo che avevano sotto i ferri. Lo vide però guardarsi attorno come se ricontrollasse la lista di tutto, persone e oggetti.

— Avanti, Ritter, vecchio posapiano, vediamo di cominciare la partita. Fai le carte — disse Vaagen, tamburellando le dita sul tavolo con impazienza. Il suo tono era un misto di punzecchiante sarcasmo e genuino incoraggiamento. — I miei scanner dicono che le ossa sono già in decalcificazione. Se aspettiamo che quel veleno le rosicchi troppo, non mi resterà niente su cui ricostruire uno scheletro. Incidi adesso; le unghie te le mangerai più tardi.

— Non mi mangio mai le unghie quando ho i guanti — borbottò il chirurgo. — E tu guarda di non darmi di gomito mentre opero, altrimenti dico al tecnico di ammanettarti all’autoclave.

Veri vecchi amici, sospirò Cordelia fra sé. Il chirurgo agitò le dita, raccolse un vibro-bisturi, inspirò una lunga boccata d’aria con gli occhi fissi sull’addome di Cordelia e tagliò, con un gesto dritto e deciso. Il tecnico medico seguì il laser che apriva la carne col cauterizzatore a mano, sigillando i vasi sanguigni nella profonda incisione rettilinea. Nel roseo tessuto muscolare, sotto lo strato di grasso giallastro superficiale, non ci fu quasi perdita di sangue. Lei sentì una pressione, ma nessun dolore. Altri tagli più lenti, semicircolari, le aprirono la parte anteriore dell’utero.

Un trasferimento di placenta era molto più impegnativo di un semplice taglio cesareo. La fragile membrana della placenta doveva essere chimicamente e ormonalmente persuasa a staccarsi dalla rete di vasi sanguigni dell’utero, senza danneggiare troppi dei villi di cui era fittamente coperta, e poi separata dalla parete uterina con un bagno di soluzione nutriente molto ossigenata. La spugna del simulatore doveva quindi esser fatta scivolare fra la placenta e l’interno dell’utero, in modo che i villi cominciassero almeno in parte a interagire con la nuova matrice, prima che l’intera massa fosse sollevata fuori dall’addome vivo della madre e deposta nel simulatore. Più avanzata era la gravidanza, e più difficile risultava il trasferimento.

Il cordone ombelicale fra la placenta e il feto fu monitorato, e Ritter ordinò di iniettare ossigeno extra con un ipospray. Su Colonia Beta sarebbe stato un robot a farlo, lì se ne occupò un tecnico dall’aria ansiosa e accigliata.

Il tecnico cominciò a pomparle nell’utero la chiara soluzione giallastra. Usciva da due tubi, e altri due la riassorbivano fuori, versandola in una vaschetta di raccolta. Altro liquido le traboccava dall’addome, sgocciolando giù sul tavolo e sul pavimento. Le mani guantate del chirurgo, dentro di lei, stavano letteralmente lavorando sott’acqua. Non c’era dubbio: un trasferimento di placenta era una faccenda dura anche in quanto a impegno fisico.

— Spugna — ordinò a bassa voce Ritter. Vaagen e Henry avvicinarono il simulatore uterino, lo aprirono e tirarono fuori la matrice di spugna dall’interno sterile. Il chirurgo la spinse dentro con l’aiuto di un paio di lunghe pinze curve e per lunghi interminabili minuti lavorò per metterla a posto. Cordelia non poteva vedere le sue mani dietro la curvatura dell’addome, così nudo e rigonfio; sapeva solo che erano dentro di lei. Il respiro le si accelerò per la tensione. Ritter stava sudando.

— Dottore… — Il tecnico indicò qualcosa su un monitor.

Ritter alzò lo sguardo. — Mmh! — borbottò, poi continuò a lavorare a denti stretti, concentrato. Il tecnico avvicinò il tavolo dei ferri e disse qualcosa. Henry e Vaagen dissero anche loro qualcosa, in tono incoraggiante, ma Cordelia non capì le parole… aveva freddo, si sentiva svanire…

Il fluido che traboccava fuori dal suo addome cambiò colore all’improvviso striandosi di rosso, rosso vivo, e la quantità che ne usciva aumentò, molto più rapidamente di quella del liquido che entrava.

— Cauterizza qui! - sibilò Ritter.

Cordelia ebbe una breve visione, al di là di una membrana, di minuscole braccia e gambe, e una testa scura: un corpiciattolo che si muoveva nelle mani guantate del chirurgo, non più grosso di un gattino mezzo affogato. — Vaagen! Fatti avanti e prendilo, ora, se lo vuoi! — esclamò Ritter. Vaagen affondò anch’egli le mani guantate nell’addome colmo di fluido, mentre lenti vortici scuri annebbiavano la vista di Cordelia, e d’un tratto lei avvertì un dolore terribile. Brevi lampi accecanti le esplosero negli occhi; poi una nuvola di tenebra le fu sopra e la avvolse. L’ultima cosa che sentì fu la voce allarmata del chirurgo che sibilava: — Oh, merda…!

I suoi sogni erano impregnati di sofferenza. La cosa peggiore era il soffocamento. Nel sonno si sentiva mancare il respiro e piangeva e lottava per una boccata d’aria. La sua gola era intasata di ostacoli che lei artigliava fino a spaccarsi le dita sui denti. E poi sognava di nuovo le torture di Vorrutyer, moltiplicate ed estese nelle più folli complicazioni per ore e ore. In ginocchio sul suo petto c’era un Bothari dementato che le schiacciava i polmoni come un macigno.

Quando finalmente si svegliò — c’erano stati altri risvegli, ma di quelli non ricordava niente — fu come uscire da un’infernale cella sotterranea per tornare alla luce divina. Il suo sollievo fu così grande che mandò un gemito, con gli occhi pieni di lacrime. Poteva respirare, anche se non senza sforzo. Aveva dolori dappertutto e non riusciva a muoversi, ma poteva respirare. Questo le bastò.

— Sshh, sshh. — Un panno umido massaggiò cautamente le sue palpebre appiccicose di muco. — Va tutto bene.

— Cosh… cosha… — farfugliò. La vista le si schiarì un poco. Era notte, e accanto al letto erano accese un paio di lampade schermate. La faccia di Aral comparve sopra la sua. — È s… sera? Cos’è… successo?

— Sshh. Sei stata male, molto male. Hai avuto una brutta emorragia durante il trasferimento di placenta. Il tuo cuore si è fermato due volte. — Aral si umettò le labbra, poi continuò: — Il trauma dell’operazione, dopo l’avvelenamento da soltossina, ha provocato un collasso polmonare. Ieri hai avuto un’altra ricaduta, ma il peggio è passato. Non muovere la testa; hai i tubi dell’ossigeno nel naso.

— Quanto… tempo?

— Tre giorni.

— Ah. E… il bambino? Aral! Il bambino!

— È andato tutto bene. Vaagen ha detto subito che il trasferimento era riuscito. Hanno perso il trenta per cento della funzionalità placentare, ma Henry ha rimediato con una soluzione ossigenata molto nutritiva e tutto sembra proseguire normalmente, almeno per quanto potevamo aspettarci. Comunque, il bambino è ancora vivo. Vaagen ha già cominciato i suoi trattamenti sperimentali sulla calcificazione, e ha promesso un primo resoconto appena sarà possibile. — Le accarezzò la fronte. — Vaagen ha accesso prioritario a tutte le attrezzature ospedaliere, e potrà avere i tecnici e il materiale di cui ci sarà bisogno, compresa la possibilità di far venire qui chiunque desideri, per un consulto. Ha già ingaggiato un pediatra, mi sembra, oltre allo stesso Henry. E per i gas tossici, Vaagen è il migliore esperto che potremmo trovare, anche fuori Barrayar. Non possiamo fare di più, al momento. Ora riposati, amore.


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