Era buio: buio pesto. Cercò di strisciare in avanti. Voleva tornare a casa dalla sua gente che l'avrebbe aiutato. Era talmente buio che non riusciva a vedersi le mani. Senza rumore, invisibile nella completa oscurità, la neve cadeva sopra di lui e tutt'intorno, sul fango e le foglie marce. Voleva andare a casa. Aveva un freddo terribile. Cercò di rialzarsi, ma non c'erano ovest ed est, e intorpidito dal dolore riabbassò la testa sul braccio. «Venite da me», cercò di chiamare, nel linguaggio mentale degli Alterra, ma era troppo difficile chiamare fino a quella distanza nel buio. Era più facile rimanere immobile dove si trovava. Nulla poteva essere più facile.

In un'alta casa di pietra di Landin, accanto a un fuoco di legna, Alla Pasfal alzò improvvisamente la testa dal libro che stava leggendo. Aveva la netta impressione che Jakob Agat le trasmettesse qualcosa, ma non le giunse alcun messaggio. Era strano. C'erano moltissimi fenomeni strani, effetti concomitanti o postumi, aspetti inesplicabili che si accompagnavano alla pratica della comunicazione mentale; molte persone, laggiù a Landin, non l'apprendevano mai, e coloro che la conoscevano la usavano con scarsissima frequenza. A nord, nella colonia di Atlantika, avevano l'abitudine di parlare con la mente in modo più libero. Ella era una profuga di Atlantika e ricordava come, nel terribile Inverno della sua infanzia, avesse continuato a parlare mentalmente con gli altri per tutto il tempo. E dopo che sua madre e suo padre erano morti nella carestia, per un'intera fase lunare ella aveva continuato a sentirli trasmettere, a sentire nella mente la loro presenza… ma senza messaggi, senza voce, in silenzio.

— Jakob! — gli trasmise con la mente, a lungo e con intensità, ma non ci fu risposta.

Nello stesso tempo, mentre era nell'Armeria a controllare ancora una volta l'equipaggiamento della spedizione, Huru Dipilota diede improvvisamente voce a un'inquietudine che per tutto il giorno aveva continuato ad aleggiare in lui, e sbottò: — Che diavolo crede di fare, Agat?,

— È molto in ritardo — disse uno dei ragazzi dell'Armeria. — È andato nuovamente a Tevar?

— A cementare le relazioni con le facce imbiancate — disse Dipilota; fece una risatina priva della minima allegria e aggrottò la fronte. — Benissimo, andiamo avanti, controlliamo i parka.

Nello stesso tempo, in una stanza ricoperta di pannelli di legno che sembravano seta color avorio, Seiko Esmit scoppiò silenziosamente in pianto, torcendosi le mani e sforzandosi di non trasmettergli nulla, di non parlargli mentalmente, di non mormorare neppure il suo nome: «Jakob!».

Nello stesso tempo la mente di Rolery divenne completamente buia per un attimo. Rimase accovacciata senza muoversi, là dov'era.

Ella si trovava nella capanna dei cacciatori. Aveva pensato che con tutta la confusione del trasloco dalle tende alle Case Familiari della città, simili a tane, la sua assenza e il suo ritorno molto tardi, la sera prima, non sarebbero stati notati. Ma oggi era diverso: l'ordine era ritornato, e la sua partenza sarebbe stata notata. Perciò era uscita quando la luce del giorno era ancora piena, confidando che nessuno badasse particolarmente alla cosa; si era recata alla capanna facendo un largo giro, si era raggomitolata al suo interno, avvolta nella pelliccia, e aveva atteso che scendesse la notte ed egli infine arrivasse. La neve era cominciata a cadere; l'osservarla le aveva fatto venire sonno; e aveva continuato a osservarla, chiedendosi sonnecchiosamente che cosa avrebbe fatto l'indomani. Perché infatti Agat sarebbe partito. Ed ogni persona del suo clan avrebbe saputo ch'ella era rimasta fuori per tutta la notte. Ma questo riguardava il domani. E il domani si sarebbe risolto da solo. Adesso era l'oggi, l'oggi… ed ella si assopì, finché non si svegliò d'improvviso, con un sobbalzo grandissimo, e rimase accovacciata per un lungo istante, con la mente vuota, buia.

Poi si rizzò in piedi, bruscamente, e con selce e acciarino accese il cestino-lanterna che aveva portato con sé. Alla sua debole luce scese lungo il fianco della montagna finché non incontrò il sentiero, esitò un istante e si diresse a est. Una volta si fermò e disse: — Alterra… — in un bisbiglio. La foresta era perfettamente tranquilla nella notte. Ella avanzò finché non lo trovò, disteso sul terreno battuto.

La neve, che ora cadeva più fitta, formava scie bianche nel debole raggio della lanterna. Adesso aderiva al suolo, invece di sciogliersi, e aveva formato una spolveratura di bianco sul mantello stracciato di lui, e perfino sui suoi capelli. La sua mano, quando ella gliela toccò per la prima volta, era fredda, ed ella seppe che era morto. Si mise a sedere allora nel fango umido, bordato di neve, accanto a lui, e gli sollevò la testa e l'appoggiò sulle ginocchia.

Egli si mosse ed emise una specie di gemito, e con questo Rolery ritornò completamente in sé. Interruppe l'inutile azione di scuotergli via dai capelli e dal colletto la neve simile a polvere, e rimase a sedere immobile per un istante, pensando. Poi lo riadagiò a terra, si alzò in piedi, cercò meccanicamente di sfregacciarsi via dalle mani il sangue appiccicoso, e con l'aiuto della lanterna cominciò a cercare qualcosa, vicino al sentiero. Trovò ciò che le serviva, e si mise all'opera.

Un morbido, debole raggio di sole scendeva nella stanza. Al suo tepore era difficile svegliarsi, ed egli continuò a scivolare indietro, nelle onde del sonno, nel lago profondo e immobile. Ma sempre la luce lo ridestava; e infine fu pienamente sveglio, e vide le pareti alte e grige che lo chiudevano al loro interno e il raggio inclinato del sole che proveniva dai vetri.

Rimase immobile mentre il dardo di luce acquosa e dorata svaniva e ritornava, scivolava via dal pavimento e si raccoglieva sulla parete di fronte a lui, si alzava e diventava più rosso. Alla Pasfal entrò nella stanza e, vedendo che era sveglio, rivolse un cenno a qualcuno che le stava dietro, indicandogli di non entrare. Chiuse la porta e si inginocchiò accanto a lui. Le case degli Alterra erano ammobiliate frugalmente; tutti dormivano su pagliericci appoggiati direttamente sui tappeti del pavimento, e usavano come sedie, tutt'al più, un sottile cuscino. Alla si inginocchiò e abbassò lo sguardo su Agat: la faccia nera e consunta della donna era fortemente illuminata dal raggio rossastro del sole. E nella sua faccia non comparve pietà, mentre lo guardava. Aveva dovuto sopportare troppe cose, quando ancora era troppo giovane, perché la compassione e gli scrupoli potessero mai essere troppo profondi in lei, ed ora che era giunta alla vecchiaia era divenuta spietata. Scosse un poco la testa da sinistra a destra e disse piano: — Jakob… che cosa hai fatto?

Egli si accorse che la testa gli faceva male quando cercava di parlare: cosicché, non avendo una vera risposta, rimase zitto.

— Che cosa hai fatto…

— Come sono tornato? — egli chiese infine, formando così malamente le parole, con la bocca ferita, che ella alzò la mano per interromperlo. — Come sei tornato?… è questo che hai chiesto? Ti ha portato lei. La ragazza eis. Ha fatto una sorta di barella travois con alcuni rami e le sue pellicce, ti ha avvolto dentro e ti ha portato dall'altra parte della montagna, fino alla Porta di Terra. Di notte, sulla neve. Non avendo niente addosso, oltre ai calzoni… si è dovuta stracciare la tunica per legarti. Quegli eis sono più robusti del cuoio di cui si vestono. Ha detto che con la neve era più facile tirare… Adesso la neve è scomparsa. Il tutto è successo la notte dell'altro ieri. Tutto considerato, hai fatto una bella dormita.

Prese la brocca e gli versò una tazzina d'acqua; rimise la brocca su un vassoio accanto al letto e aiutò Agat a bere. A così poca distanza, la faccia della donna aveva un aspetto vecchissimo, reso delicato dall'età. Ella gli disse con il linguaggio mentale, ancora incredula: Come hai potuto fare una cosa simile? Sei sempre stato un uomo orgogliosissimo, Jakob!


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