— Avranno bisogno delle nostre scorte e delle nostre bestie questa notte, per cibare tutte quelle persone — continuò Anweld. — Non appena queste saranno passate, attaccheranno.
— Mandate le nostre donne e i nostri figli nelle montagne ad ovest, allora. Questa Città è solo una trappola, davanti a un esercito così numeroso.
— Ti ascolto — disse Anweld, annuendo con un'alzata di spalle.
— Adesso… subito… prima che i Gaal ci circondino.
— Questo è già stato detto e ascoltato. Ma altri dicono che non possiamo mandare via le nostre donne a provvedere a se stesse mentre noi rimaniamo al riparo delle mura.
— Allora andiamo via anche noi! — mugugnò Wold. — Gli Uomini di Tevar non sanno più decidere nulla?
— Non hanno capo — rispose Anweld. — Seguono questo e quell'uomo, e quell'altro e nessuno. — Dire di più avrebbe dato l'impressione di voler biasimare Wold e il suo clan; non disse altro, se non: — Per questo attendiamo qui di essere distrutti.
— Io intendo allontanare le mie donne — disse Wold, seccato dalla fredda disperazione di Anweld, e lasciò il grande spettacolo della Migrazione, per discendere lungo la scaletta e per andare a dire ai congiunti di salvarsi finché rimaneva ancora una possibilità. Intendeva accompagnarli. Poiché non si poteva combattere contro un nemico così soverchiante, e una parte, almeno una piccola parte della popolazione di Tevar, doveva sopravvivere.
Ma i giovani uomini del suo clan non erano d'accordo e non erano disposti ad obbedire ai suoi ordini. Volevano fermarsi lì per combattere.
— Ma morirete — disse Wold, — mentre le vostre mogli e i vostri figli potrebbero salvarsi… se non restassero qui con voi. — La sua lingua era di nuovo pesante. Non aspettarono neppure che finisse di parlare.
— Scacceremo i Gaal — disse un giovane nipote. — Noi siamo guerrieri!
— Tevar è una città robusta, Anziano — disse un altro, in tono convincente, adulatore. — Tu ci hai insegnato a costruirla bene.
— Resisterà all'Inverno — disse Wold. — Ma non a diecimila guerrieri. Preferisco vedere le mie donne morire di freddo sulle colline spoglie, piuttosto che saperle vive come schiave e concubine dei Gaal! — Ma non lo ascoltavano: aspettavano soltanto che finisse di parlare.
Uscì nuovamente all'esterno, ma ormai era troppo stanco per salire una seconda volta la scaletta che portava alla piattaforma. Si trovò un posto dove attendere, fuori dell'andirivieni delle strette vie: una nicchia accanto a un muro di sostegno delle fortificazioni sud, non lontano dalla porta. Se saliva sul muro inclinato, fatto di mattoni, poteva guardare al di là delle mura fortificate, e osservare lo svolgersi della Migrazione; quando il vento gli penetrava sotto il mantello, poteva accovacciarsi, con il mento sulle ginocchia, e trovare un po' di riparo nella nicchia. Per qualche tempo il sole splendette su di lui, nel suo nascondiglio. Egli godette il suo tepore e non pensò molto. Una volta o due alzò gli occhi al sole, il sole dell'Inverno, vecchio, debole per la tarda età.
L'erbaverna, le piccole piante dalla vita breve e dalla rapida fioritura che crescevano tra una tormenta e l'altra fino a metà dell'inverno, allorché la neve non si scioglieva più e cresceva soltanto il grano delle nevi, privo di radici, stava già spuntando sulla terra calpestata, sotto le mura. C'era sempre qualcosa che viveva, e ciascuna creatura attendeva il suo tempo per tutto il corso dell'Anno, fioriva e moriva per tornare ad attendere.
Le lunghe ore passarono.
Si udirono grida e gemiti all'angolo nordovest delle mura. Gli uomini passarono di corsa per le strade della piccola città, vicoletti la cui larghezza era appena sufficiente a lasciar passare un uomo per volta, sotto i cornicioni sporgenti. Poi il ruggito delle urla si alzò alle spalle di Wold e all'esterno della porta, alla sua sinistra. V alta porta di legno a saracinesca, che veniva sollevata dall'interno grazie a corde, tremò. Usavano un tronco per spaccarla. Wold si alzò con difficoltà; si era così intorpidito, sedendo laggiù al freddo, che non si sentiva più le gambe. Per un minuto rimase appoggiato alla lancia, poi si mise di guardia con la schiena contro il muro di sostegno, e tenne pronta la lancia, senza la catapulta, in posizione per essere usata a corta distanza.
I Gaal dovevano avere usato delle scale, poiché erano già all'interno della città, sulla parte nord: Wold lo capiva dal rumore. Una lancia volò alta sui tetti, scagliata da una catapulta. La porta rimbombò di nuovo. Ai vecchi tempi non avevano scale e arieti, non giungevano a migliaia, bensì in tribù di straccioni, di barbari codardi che si precipitavano a sud prima del gelo, che non rimanevano nei loro Territori a vivere o morire come facevano i veri uomini… Ne giunse uno dalla faccia larga e bianca, con una penna rossa infilata nei capelli acconciati a forma di corno e ricoperti di pece: correva ad aprire la porta dall'interno. Wold fece un passo avanti e gli gridò: — Fermo lì! — Il Gaal si guardò intorno, e il vecchio gli cacciò la lancia dalla punta di ferro, lunga sei piedi, nel fianco sotto le costole, di punta. Stava ancora cercando di estrada dal corpo che si contorceva, quando, dietro di lui, la porta della città cominciò a schiantarsi. Era una vista orrenda: il legno che si spaccava come cuoio marcio, e la punta di un grosso tronco che faceva capolino dallo squarcio. Wold lasciò la lancia nella pancia del Gaal e corse per la strada, pesantemente, incespicando, in direzione della Casa della sua famiglia. I tetti di legno obliqui della città erano tutti in fiamme, dietro di lui.
CAPITOLO OTTAVO
Nella città straniera
La cosa più strana, in tutte le stranezze di quella casa, era il dipinto sulla parete della grande sala, al piano terreno. Quando Agat se ne era andato e le stanze erano divenute mortalmente silenziose, ella era rimasta a fissare il dipinto finché esso non era divenuto per lei il mondo, ed ella la parete. E il mondo era una rete: una rete profonda, simile ai rami che si intrecciavano nei boschi, simile alle correnti che si attraversavano reciprocamente nell'acqua, argento, grigio, nero, trapassati di verde e di rosa e di un giallo come quello del sole. E quando si guardava quella rete profonda si poteva vedere al suo interno, intessute o come cornice di ciò che vi era intessuto, forme e figure piccole e grandi, bestie, erbe, uomini e donne e altre creature, alcune simili ai Nati Lontano e altre dissimili; e strane immagini, scatole appoggiate su gambe rotonde, uccelli, asce, lance d'argento e piume di fuoco, facce che non erano facce, pietre con le ali e un albero le cui foglie erano stelle.
— Che cos'è? — ella chiese alla donna dei Nati Lontano a cui Agat l'aveva affidata, la sua consanguinea; ed ella, nella sua maniera che costituiva uno sforzo per essere gentile, le rispose: — Un quadro, un disegno… la tua gente disegna, vero?
— Sì, un poco. Di che cosa parla?
— Degli altri mondi e della nostra casa. Vi si vedono le popolazioni… È stato dipinto molto tempo fa, nel primo Anno del nostro esilio, da uno dei figli di Esmit.
— E questo che cos'è? — domandò Rolery, indicando il particolare, da una rispettosa distanza.
— Un edificio… il Grande Palazzo della Lega, sul mondo chiamato Davenant.
— E quello?
— Un eroplano.
— Ti ascolto ancora — disse Rolery, educatamente (si comportava sempre con il massimo della cortesia, ormai), ma quando vide che Seiko Esmit non pareva comprendere la formula rituale, le chiese: — Che cos'è un «eroplano»?
La donna dei Nati Lontano sporse un poco le labbra e disse in tono d'indifferenza: — Una cosa per viaggiare, come un… be', voi non usate neppure le ruote, come posso dirti? Hai visto i nostri carretti? Sì? Be', questo era un carro per viaggiare, ma volava nel cielo.