Si trovavano in uno dei distretti più antichi della città. Il veicolo seguiva un percorso tortuoso, forse per confonderlo o semplicemente perché quella era una scorciatoia. Dopo circa un quarto d’ora entrarono in un parcheggio sotterraneo, piccolo, chiaramente privato, in cui c’era spazio per poche macchine. Il veicolo si fermò con un sibilo.

Lo fecero entrare in un tunnel di risalita e si fermarono al primo livello, entrando in un corridoio. Uno dei rapitori gli tolse gli stivali e la cintura con lo schermo anti-sensori. L’effetto dello storditore stava cominciando a svanire; si sentiva le gambe di gomma, piene di prurito e di formicolii, ma almeno erano in grado di sorreggerlo. Gli slegarono i polsi e Miles cercò goffamente di riattivare la circolazione. Poi gli tolsero il bavaglio e lui emise un gracidìo inarticolato.

Aprirono una porta e lo spinsero in una stanza priva di finestre; poi l’uscio si richiuse alle sue spalle con uno scatto simile alle ganasce di una trappola che scattava. Miles barcollò, ma riuscì a restare in piedi, con le gambe leggermente divaricate.

Una lampada di sicurezza sigillata contro il soffitto illuminava la stanzetta il cui unico mobilio erano due stretti banconi contro le pareti. A sinistra un’apertura senza porta conduceva in un minuscolo bagno, anch’esso senza finestre.

Su una delle panche, con il volto girato verso la parete, era raggomitolato un uomo, che indossava dei pantaloni verdi, una maglietta color crema e le calze. Con movimenti rigidi e cauti, l’uomo si girò e si mise a sedere, sollevando un braccio in alto in un gesto automatico, come per schermare gli occhi arrossati dalla luce troppo intensa, mentre con l’altro si appoggiava alla panca, per sostenersi. Capelli scuri scarmigliati, il volto scurito dalla barba di quattro giorni. Il colletto della maglietta era aperto, lasciando vedere un collo stranamente vulnerabile, in contrasto con l’effetto da armatura prodotto normalmente dal colletto alto e rigido dell’uniforme barrayarana. Il volto era solcato da rughe.

L’impeccabile capitano Galeni, piuttosto malconcio, però.

CAPITOLO OTTAVO

Galeni strinse gli occhi e guardò Miles. «Che mi venga un colpo» disse con voce piatta.

«Idem» rispose Miles con voce gracchiante.

Galeni raddrizzò la schiena e gli lanciò un’occhiata sospettosa. «O… non è lei?»

«Non so» Miles rifletté. «Quale me stava aspettando?» Si diresse con passo malfermo all’altra panca, prima che gli cedessero le gambe, e si sedette con la schiena appoggiata alla parete e i piedi che non toccavano il pavimento. Rimasero entrambi in silenzio per alcuni minuti, osservandosi.

«Non avrebbe senso metterci tutti e due nella stessa stanza se non fossimo spiati» disse poi Miles.

Per tutta risposta Galeni sollevò l’indice indicando la lampada di sicurezza sul soffitto.

«Ah. Anche telecamera?»

«Sì.»

Miles digrignò i denti e sorrise verso il soffitto.

Galeni continuava ad osservarlo con cauta, quasi dolorosa incertezza.

Miles si schiarì la gola e sentì un gusto amaro in bocca. «Immagino che abbia incontrato il mio alter-ego.»

«Ieri… immagino che fosse ieri» Galeni guardò la lampada.

I rapitori avevano tolto l’orologio anche a Miles. «Adesso è circa l’una di notte del quinto giorno dalla sua scomparsa dall’ambasciata» lo informò rispondendo alla muta domanda. «Le lasciano sempre accese, le luci?»

«Sì.»

«Ah.» Miles lottò contro uno sgradevole fremito di ricordi: l’illuminazione continua era una delle tecniche carcerarie cetagandane per far perdere la nozione del tempo e l’ammiraglio Naismith la conosceva molto bene.

«L’ho visto per pochi secondi quando hanno fatto lo scambio» proseguì Miles e sfiorò con la mano il punto che in cui avrebbe dovuto trovarsi il pugnale e poi si massaggiò la nuca. «Sono… sono davvero così?»

«Ho creduto che fosse lei, fino alla fine. Poi mi ha detto che stava esercitandosi, facendo una prova.»

«E l’ha passata?»

«È rimasto qui per quattro o cinque ore.»

Miles trasalì. «Un brutto affare… è davvero un brutto affare.»

«Lo pensavo.»

«Capisco.» Un silenzio pesante calò sulla stanza. «Bene, storico, e come si fa a distinguere un falso dal vero?»

Galeni scosse il capo poi si portò una mano alla tempia: a quanto pareva la cosa gli creava un gran mal di testa. Anche a Miles. «Credo di non saperlo più» rispose Galeni dopo un attimo. «Mi ha fatto il saluto.»

Miles piegò un angolo della bocca in un sorriso acre. «Naturalmente di me potrebbe essercene uno solo, e tutto questo potrebbe essere un complotto per farla impazzire…»

«La smetta!» esclamò Galeni, ma al tempo stesso il fantasma di un sorriso gli illuminò il volto per un istante.

Miles gettò uno sguardo alla lampada. «Be’, chiunque io sia, lei dovrebbe essere almeno in grado di dirmi chi sono loro. Spero… che non siano i cetagandani; sarebbe molto poco confortante, dal punto di vista del mio… duplicato. È un costrutto chirurgico, spero.» Non un clone… per favore, fai che non sia un mio clone…

«Lui ha detto di essere un clone» rispose Galeni. «Naturalmente, chiunque fosse, almeno la metà delle cose che ha detto erano menzogne.»

«Oh.» Esclamazioni più colorite sembravano del tutto inadeguate.

«Sì. E questo mi ha fatto riflettere parecchio su di lei. Il lei originale, intendo.»

«Ah… ehm! Sì. Credo di sapere perché ho tirato fuori quella… quella storia quando la giornalista mi ha messo alle strette. Lo avevo visto una volta, in metropolitana, otto o dieci giorni fa, mentre ero in giro con il comandante Quinn. È probabile che stessero cercando già allora di fare lo scambio. Io ho creduto di vedere me stesso riflesso in uno specchio; ma siccome indossava l’uniforme sbagliata, hanno sospeso l’operazione.»

Galeni si osservò una manica. «E lei non se n’è accorto?»

«Avevo un mucchio di cose per la testa.»

«Non ha mai fatto rapporto!»

«Avevo preso degli analgesici, e ho creduto che si trattasse di una specie di allucinazione. Ero abbastanza sfinito e quando sono tornato all’ambasciata, mi ero già dimenticato dell’incidente. E poi» aggiunse con un debole sorriso, «ho pensato che non sarebbe stato produttivo per il nostro rapporto di lavoro se avessi cominciato a farle sorgere dei dubbi sulla mia sanità mentale.»

Galeni strinse le labbra esasperato, poi le distese in un sorriso disperato. «Forse no.»

La disperazione dipinta sul volto di Galeni allarmò Miles, che si affrettò a proseguire: «Comunque ho provato un senso di sollievo rendendomi conto di non essere diventato improvvisamente un chiaroveggente. Temo che il mio subcosciente sia più in gamba del resto del mio cervello. È solo che io non colgo i suoi messaggi.» Di nuovo indicò il soffitto. «Non i cetagandani?»

«No.» Galeni si appoggiò con la schiena alla parete, un’espressione imperscrutabile sul volto. «Komarrani.»

«Ah.» Miles quasi soffocò. «Un intrigo komarrano. Molto… oscuro.»

«Troppo» rispose Galeni storcendo la bocca.

«Be’» proseguì Miles «fino ad ora non ci hanno ammazzato. Devono avere una ragione per tenerci in vita.»

«Assolutamente nessuna» rispose Galeni socchiudendo gli occhi e stirando le labbra in un sorriso torvo, che diede alle parole il tono di una risatina, subito interrotta. Doveva essere uno scherzo privato tra lui e la luce sul soffitto. «Lui immagina di avere delle ragioni» spiegò, «ma si sbaglia di grosso.» Anche il tono amaro di quella frase era diretto verso l’alto.

«Be’, non lo dica a loro» rispose Miles a denti stretti. «Avanti, Galeni, sputi il rospo. Cosa è successo il mattino che è scomparso dall’ambasciata?»

Galeni sospirò e cercò di ricomporsi. «Quella mattina ho ricevuto una telefonata, da una vecchia… conoscenza komarrana, che mi chiedeva di incontrarlo.»


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