Io vorrei sapere cosa sta facendo lui con una scatola nelle mani e la scorta delle guardie, ma non sono tanto maleducato da chiederglielo. Il signor Aldrin ha detto che non dobbiamo più preoccuparci del signor Crenshaw, quindi io non sono obbligato a rispondergli quando lui mi parla con quel tono offensivo. — Ho molto lavoro da fare, signor Crenshaw — dico. Le sue mani fanno un movimento convulso, come se lui volesse gettar via la scatola e afferrarmi, ma non lo fa e io lo sorpasso seguendo Dale.

Tornati nel nostro edificio, Dale parla. — Sì, sì, sì — dice. E poi, più forte: — Sì, sì, sì!

— Ci dicono che dobbiamo desiderare di essere normali — dice Chuy — e poi di amare noi stessi così come siamo. Se uno vuol cambiare, vuol dire che qualche parte di quello che è non gli piace. Fare due cose contraddittorie è impossibile.

— È quello che ci dicono le persone normali. Ci chiedono di fare una cosa impossibile… ma noi non dobbiamo pensare che tutto ciò che dicono le persone normali sia vero.

— Però non è nemmeno interamente menzogna — dice Linda.

— Non interamente menzogna, non interamente verità — aggiunge Dale.

Questo è evidente, ma prima io non avevo mai pensato che è davvero impossibile che una persona voglia cambiare e al tempo stesso sia contenta di rimanere com'è. Non credo che nessuno di noi ci abbia pensato, prima che lo dicessero Dale e Chuy.

— Ho cominciato a riflettere in casa tua — dice Dale. — Mi ha aiutato.

— Se il trattamento non funziona — dice Eric — sarà ancora più costoso per la compagnia prendersi cura di… ciò che succederà.

— Non so come stia andando Cameron — dice Linda.

— Lui voleva essere il primo — dice Chuy.

— Sarebbe meglio se potessimo andare uno alla volta e vedere cos'accade agli altri — dice Eric.

— La velocità del buio sarebbe minore — dico. Tutti mi guardano. Ricordo che non ho mai parlato loro della velocità del buio e di quella della luce. — La velocità della luce nel vuoto è di trecentomila chilometri al minuto secondo — spiego.

— Io mi chiedo — dice Linda — se, siccome gli oggetti cadono più in fretta quando sono più vicini alla Terra, e questo è dovuto alla gravità, la luce viaggi più in fretta vicino a una gravità enorme come quella di un buco nero.

Non avevo mai saputo che Linda s'interessasse alla velocità della luce. — Non lo so — rispondo. — Ma i libri non parlano mai della velocità del buio. Qualcuno mi ha detto che non ne ha, che è solo assenza di luce, però io credo che dovrà pure arrivare dov'è.

Tutti tacciono per un istante, poi Dale dice: — Se Lungavita può rendere il tempo più lungo per noi, forse qualcosa può aumentare la velocità della luce.

Eric dice: — Vado in palestra — e se ne va.

Linda ha il viso contratto e la fronte corrugata. — La luce possiede una velocità. Anche il buio dovrebbe avere una velocità. Gli opposti sono equivalenti in tutto tranne che nella direzione.

Questo non lo capisco. Aspetto.

— I numeri positivi e quelli negativi sono uguali tranne che per la direzione — dice Linda lentamente. — Piccolo e grande sono ambedue espressioni di dimensione, ma in direzioni opposte. Andare e tornare si riferiscono alla stessa strada, ma in direzioni opposte. Così la luce e il buio sono opposti, ma uguali nella stessa direzione. — Allarga di colpo le braccia. — È questo che amo dell'astronomia — dice. — Ci sono tante cose là fuori, tante stelle, tante distanze. C'è dal nulla al tutto.

Non sapevo che Linda amasse l'astronomia. Lei è sempre sembrata la più remota di noi, la più autistica. Però io so cosa vuol dire. Anch'io amo le serie, da piccolo a grande, da vicino a lontano, dal fotone di luce che entra nella mia pupilla, vicinissima a me, al luogo dal quale è partito, ad anni luce di distanza attraverso l'universo.

— Mi piacciono le stelle — continua Linda. — Voglio… volevo… lavorare con le stelle. Mi dissero di no. Dissero: "La tua mente non lavora nel modo giusto. Solo poche persone possono fare questo". Ma io sapevo che era questione di matematica e sapevo di essere brava in matematica; però mi lasciarono troppo a lungo nelle classi inferiori e quando finalmente arrivai nelle classi giuste dissero che era troppo tardi. E così decisero che dovevo fare matematica applicata e studiare i computer. Perché con i computer c'erano opportunità di lavoro. L'astronomia non è roba pratica, mi spiegarono. Ma se vivessi più a lungo, allora non sarebbe più troppo tardi.

Non avevo mai sentito Linda parlare tanto di sé. Adesso ha il viso più colorito e i suoi occhi hanno uno sguardo più fermo.

— Non sapevo che ti piacessero le stelle — dico.

— Le stelle sono lontane l'una dall'altra — dice. — Non devono toccarsi per conoscersi. Risplendono l'una sull'altra da lontano.

Io sto per dire che le stelle non si conoscono reciprocamente, che non sono vive, ma qualcosa mi fa tacere. Ho letto in un libro che le stelle sono composte di gas incandescenti e in un altro libro che il gas è materia inanimata. Forse quel libro si sbagliava. Forse le stelle sono fatte di gas incandescenti eppure sono vive.

Linda mi guarda, mi fissa negli occhi. — Lou… tu ami le stelle?

— Sì — rispondo. — E la gravità e la luce e lo spazio e…

— Betelgeuse — dice lei. Sorride e di colpo l'atrio diventa luminoso. Non mi ero accorto che fosse buio prima. Il buio era qui in precedenza, ma infine è arrivata la luce. — Rigel. Antares. Luce e colori. Lunghezze d'onda… — Le sue mani ondeggiano nell'aria e io so che stanno mimando gli schemi che le lunghezze d'onda e le frequenze compongono.

— Binarie — dico io. — Nane brune…

Il viso di Linda si rilassa. — Oh, quelle sono roba vecchia. Chu e Sanderly ne hanno riclassificate molte… — S'interrompe. — Lou… io credevo che tu passassi tutto il tuo tempo con le persone normali… fingendo di essere normale.

— Vado in chiesa — dico. — Frequento un club di scherma.

— Scherma?

— Armi bianche — spiego, ma lei continua a non capire. — È una specie di gioco. Cerchiamo di colpirci l'un l'altro.

— Ma perché? — chiede lei. — Se tu ami le stelle…

— Mi piace anche la scherma — dico.

— Con gente normale — dice lei.

— Sì, mi piacciono.

— È difficile… — dice lei. — Io frequento il planetario. Cerco di parlare con gli scienziati che vengono, ma… la lingua mi s'inceppa. Posso capire che loro non vogliono parlare con me. Si comportano come se io fossi stupida o pazza.

— Le persone che conosco io non sono malaccio — dico. Ma mi sento colpevole di averlo detto, perché Marjory è più di "non malaccio". Tom e Lucia sono qualcosa di meglio di "non malaccio". — Tranne uno che ha cercato di uccidermi.

— Ha cercato di ucciderti? — dice Linda. Sono sorpreso che non lo sappia, ma ricordo di non avergliene mai parlato. Forse lei non guarda i notiziari.

— Ce l'aveva con me — spiego.

— Perché sei autistico?

— Non esattamente… ma… sì. — Su cosa si basava, infatti, l'odio di Don se non sul fatto che io, un disabile, un falso normale, avevo più successo di lui nel suo mondo?

— Era malato — dice Linda enfaticamente. Si stringe nelle spalle e si volta. — Stelle… — dice.

Vado nel mio ufficio, pensando alla luce, al buio e alle stelle, e allo spazio intermedio che è pieno della luce che emana da loro. Come può esserci buio nello spazio quando esso rigurgita di stelle? Se noi possiamo vedere le stelle, ciò significa che c'è luce. E i nostri strumenti che scorgono anche la luce invisibile la registrano in grandi masse indistinte… è dappertutto.

Non capisco perché la gente parli dello spazio come di un posto oscuro e freddo, inospitale. È come se non uscissero mai fuori la notte a guardare il cielo. Il luogo dove c'è l'autentico buio è fuori della portata dei nostri strumenti, è agli estremi confini dell'universo, dove il buio è arrivato prima. Ma la luce lo raggiungerà.


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