Il pomeriggio si trascinava, afoso e interminabile, ritmato dal continuo battito dei remi.

Le mani di Carse cominciarono a gonfiarsi, poi i palmi si scorticarono e sanguinarono. Il terrestre era robusto, e temprato da una vita d’azione su un mondo pericoloso e ostile come era stato Marte, al di fuori delle piccole isole di civiltà che i terrestri avevano costruito quando erano discesi sul pianeta rosso… isole troppo esigue perché la loro esistenza esercitasse qualche influsso sullo scorrere dell’antica vita di quel mondo. Era robusto, certo, ma la fatica del remo era immensa, e anche le sue forze lo abbandonavano, come acqua corrente, e un sordo dolore si diffondeva in tutto il suo corpo, e un velo di nebbia gli offuscava lo sguardo. Ben presto si sentì ridotto a una povera, inerme macchina ormai priva di forza, e invidiò Jaxart, lo invidiò con tutte le sue forze, perché il robusto, possente Khond remava senza tradire alcuna fatica, e pareva nato sul banco del rematore.

Gradualmente, la stanchezza stessa gli venne in aiuto. Era così intensa, così totale, che perfino la sofferenza del corpo, perfino il bruciore delle mani e la protesta disperata della schiena si stemperarono, persero chiarezza e intensità, e infine lo abbandonarono. Cadde in una specie di torpore, come un uomo sottoposto all’effetto di qualche potente droga, un torpore che permetteva al suo corpo di eseguire il compito che gli era richiesto meccanicamente, senza alcuna vera partecipazione dei sensi, senza un vero sforzo, senza neppure avvertire il morso bruciante delle frustate che piovevano imparzialmente sui rematori, dalla passerella.

Poi, nell’ultimo bagliore dorato del giorno, egli sollevò la testa, per respirare una boccata d’aria per i suoi polmoni brucianti ed esausti, e nel fare questo riuscì a vedere, attraverso la calura ondeggiante che gli velava la visione, la figura di una donna, ritta sul ponte sovrastante, con gli occhi fissi sul mare.

Capitolo VII

LA SPADA

Forse era una Sark, e forse era la personificazione stessa del male, come gli altri avevano detto. Ma qualunque fosse stata la sua natura, fece restare Carse senza fiato, e lo affascinò, a tal punto da impedirgli di distogliere lo sguardo.

Era ferma sul ponte, come una fiamma scura in un nembo di luce crepuscolare. Indossava l’abito dei guerrieri: un nero usbergo di maglia di ferro sopra una breve tunica color porpora, con un drago gemmato in rilievo sulla curva del seno coperto dall’armatura, e una spada corta al fianco.

Aveva la testa nuda. Portava i neri capelli corti tagliati a frangia sulla fronte, proprio sopra gli occhi, e sciolti dietro la nuca, in modo che le ricadessero sulle spalle. Sotto le sopracciglie nere, gli occhi parevano mandare lampi di fuoco liquido. Stava diritta, con le lunghe gambe snelle livemente divaricate, con gli occhi fissi sul mare.

Carse si sentì pervadere da un senso di amara ammirazione. Quella donna era la sua padrona, e lui la odiava, e odiava tutta la sua razza, ma non poteva ugualmente negare tutta la sua ardente bellezza, tutta la forza che pareva sprigionarsi dalla sua persona.

«Rema, carogna!»

L’imprecazione, e la frustata che la seguì, lo riportarono alla realtà, distogliendolo dall’attonita, affascinata contemplazione della Signora di Sark. Aveva perduto un colpo, facendo perdere la battuta a tutta la fila di rematori, e Jaxart stava imprecando, mentre Callus stava usando la frusta.

Callus impartiva imparzialmente le scudisciate, e il grasso Boghaz cominciò a gemere, con tutta la forza dei suoi polmoni:

«Pietà, Signora Ywain! Pietà, pietà!»

«Taci, canaglia!» ringhiò Callus, e continuò a frustarli, fino a quando il sangue non cominciò a scorrere.

Ywain abbassò lo sguardo, spostando la sua attenzione sulla fossa dei rematori. Chiamò, seccamente:

«Callus!»

Il capo dei rematori interruppe il suo lavoro, e s’inchinò:

«Sì, Altezza.»

«Aumenta le battute,» disse Ywain. «Svelto! Voglio raggiungere i Banchi Neri all’alba.» Guardò direttamente Boghaz e Carse, e aggiunse, «Frusta tutti coloro che perderanno un colpo.»

Si voltò, e il tamburo cominciò a battere più rapidamente. Carse guardò la schiena di Ywain, con espressione amara e furibonda a un tempo: come sarebbe stato bello domare quella donna! Sarebbe stato bello spezzare quella sua forza orgogliosa, piegarla completamente, sradicare in lei quel maledetto orgoglio, calpestarla e umiliarla!

La frusta batteva il tempo sulla sua schiena ribelle, e non c’era altro da fare se non remare.

Jaxart sorrise, il sorriso maligno di un lupo. Tra un colpo e l’altro, riuscì a dire, ansando:

«Sark governa il Mare Bianco… o almeno, ci tiene a proclamarsi sovrano del mare. Ma queste acque sono ancora percorse dai Re del Mare! E perfino Ywain non vuole indugiare!»

«Se i suoi nemici possono attaccare da un momento all’altro, perché questa galera non è accompagnata da qualche nave di scorta?» domandò Carse, ansimando a sua volta.

Jaxart scosse il capo.

«Neppure io riesco a capirne il motivo. Ho sentito dire che Garach ha mandato sua figlia per intimorire il regno di Jekkara, che minacciava di diventare troppo ambizioso. Ma perché sia venuta senza navi di scorta…»

Boghaz suggerì:

«Forse i Dhuviani le hanno fornito una delle loro misteriose armi, per proteggersi?»

Il grande Khond emise un suono sprezzante.

«I Dhuviani sono troppo astuti per fare una cosa simile! Certo, sono pronti a usare qualche volta le loro strane armi permutare i loro alleati Sark, questo te lo posso concedere. È per questo che l’alleanza esiste. Ma in quanto a dare delle armi a Sark, o a insegnare ai Sark il loro funzionamento… non sono certo così pazzi!»

Carse cominciava a farsi un’idea più chiara di quell’antico Marte, popolato da genti semi-barbare… a eccezione dei misteriosi Dhuviani. Essi, apparentemente, possedevano almeno una parte dell’antica scienza di quel mondo, e la custodivano gelosamente, usandola a proprio beneficio, e mettendola in certe occasioni al servizio dei loro alleati Sark.

Cadde la notte. Ywain rimase sul ponte, e le sentinelle furono raddoppiate. Naram e Shallah, i due Nuotatori, si agitavano irrequieti alla catena. Nel cupo, fumigante chiarore delle torce, i loro occhi erano grandi e luminosi, pervasi da qualche misteriosa eccitazione segreta.

Carse non aveva né la forza, né lo stato d’animo adatto, per apprezzare il prodigioso spettacolo del mare che ardeva nel chiarore delle lune. Le cose peggiorarono ulteriormente quando un forte vento contrario si levò, agitando ancor più le acque, producendo una eterna processione di onde, e raddoppiando così la fatica dei rematori. Il tamburo continuava a battere nella notte ardente, implacabile, monotono e cupo.

Una collera sorda, impotente, stava divorando Carse. Il suo corpo era un’unica sofferenza, ogni muscolo gli doleva, perdeva sangue dalle mani e dalla schiena, profondamente segnata dal morso implacabile dello scudiscio. Il remo era pesante, intollerabilmente pesante. Pesava più di tutto Marte, e pareva opporre resistenza, lottare contro di lui, come se fosse stato una creatura viva.

E qualcosa accadde al suo volto. I suoi lineamenti s’indurirono in un’espressione rigida, che dava al volto la fissità, l’immutabilità di una pietra. Ogni barlume d’intelligenza si spense nei suoi occhi, lasciandoli gelidi come ghiaccio, e fissi, allucinati, come gli occhi di un folle. Il rullo del tamburo si fondeva con il battito sordo, violento del suo cuore, che gli rombava sempre più forte nelle orecchie a ogni dolorosa vogata.

Un’ondata apparve altissima nella notte, gonfiando il mare bianco, e il lungo remo sfuggì alla presa di Carse, e l’impugnatura colpì il terrestre in pieno petto, togliendogli per qualche istante il respiro. Jaxart, che era esperto, e Boghaz, che era pesante, ripresero il controllo del remo quasi subito, anche se non abbastanza in fretta per evitare che il sorvegliante li insolentisse aspramente, chiamandoli carogne e incapaci, i suoi insulti preferiti, dando forza alle parole con alcuni rapidi colpi di scudiscio.


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