Allora Carse lasciò andare il remo. Si mosse così in fretta, malgrado le catene che lo appesantivano e gli impedivano in parte i movimenti, che il sorvegliante non riuscì a capire cosa stesse accadendo, fino a quando non si ritrovò disteso sulle ginocchia del terrestre, e allora non ebbe tempo per pensare, ma solo per cercare di proteggere la testa dai colpi dei polsi incatenati di Carse.
D’un tratto, tutti i rematori parvero impazziti. La battuta venne irrimediabihnente perduta, e la galera rollò pericolosamente, sotto l’assalto delle onde. Dai banchi dei rematori, molte voci ululavano, come ammali selvaggi risvegliati dall’odore del sangue. Si udiva gridare, intorno, ’a morte, a morte!’, ed era come se la follia fosse esplosa senza preavviso nella quiete ingannevole. Callus accorse immediatamente, e colpì Carse alla testa, con la pesante impugnatura dello scudiscio; il colpo fece perdere parzialmente i sensi al terrestre, sprofondandolo in un mondo di penombra, nel quale le grida e l’agitazione giungevano attutite. Il sorvegliante, in parte strisciando, in parte correndo, riuscì a ritirarsi al sicuro, sulla passerella, sfuggendo a malapena alla stretta poderosa di Jaxart, che aveva proteso le braccia verso di lui per finire l’opera iniziata da Carse, e che si ritrovò solo con l’aria da afferrare. Boghaz cercò di farsi piccolo piccolo, per quanto gli era concesso dalla sua mole, e non fece assolutamente nulla.
Dal ponte venne la voce di Ywain:
«Callus!»
Subito il capociurma si inginocchiò, tremando.
«Sì, Altezza?»
«Frustali, fino a quando ricorderanno di non essere più uomini, ma schiavi.» Il suo sguardo irato, impersonale, si posò su Carse. «In quanto a quello… è nuovo, vero?»
«Sì, Altezza.»
«Dagli una lezione.»
E gli diedero una lezione. Callus e il sorvegliante, insieme, gli diedero una lezione indimenticabile. Carse appoggiò la fronte sul braccio, curvo, e accettò la dura punizione. Di quando in quando, Boghaz lanciava un grido di dolore, quando un colpo di frusta sbagliava il bersaglio, e prendeva il grasso Valkisiano invece che Carse. Il terrestre vide, con occhi velati, che l’acqua che ristagnava ai suoi piedi si colorava lentamente di rosso, il rosso del suo sangue che scendeva, goccia a goccia, dalle ferite che gli scudisci aprivano nella sua schiena. La collera che lo aveva infiammato si raggelò, mutandosi, come il ferro si tempra sotto il martello.
E infine, essi si fermarono. Carse sollevò il capo. Fu lo sforzo più grande che egli avesse mai fatto, ma riuscì a sollevare il capo, rigido, dolente, con terribile, orgogliosa ostinazione. E guardò Ywain, la guardò negli occhi, e il suo sguardo era duro.
«Hai imparato la lezione, schiavo?» domandò lei, con arroganza.
Ci volle molto tempo, prima che la sua gola riuscisse a formare le parole, e le sue labbra impiegarono un tempo ancora maggiore per articolare, e produrre quei suoni gli costò una tremenda fatica. Ormai non gli importava più nulla di vivere o di morire. Tutto il suo universo aveva al centro la donna che stava diritta, arrogante e intoccabile, sul ponte, sopra di lui.
«Scendi tu a insegnarmela, se ne sei capace,» rispose, raucamente, e le rivolse l’epiteto più volgare del gergo delle strade, un epiteto che indicava come lei non avesse, dopotutto, nulla da insegnare a un uomo.
Per un momento, nessuno si mosse, o parlò. L’intera nave parve chiusa da una morsa di attonito stupore e di angoscia. Poi Carse vide impallidire il volto di lei, e allora rise, un suono rauco e terribile che riecheggiò sinistro nel silenzio. Poi Scyld sguainò la spada, e scavalcò la ringhiera, lanciandosi nella fossa dei rematori.
Nella luce rossigna, ondeggiante delle torce, la lama lampeggiò alta e lucente, mandando sinistri riverberi di fuoco. E in quel momento Carse pensò soltanto che aveva fatto davvero un lungo, lunghissimo viaggio, per trovare la morte. Aspettò che il colpo fatale si abbattesse su di lui, ma il fendente non venne, e allora, confusamente, si rese conto che Ywain aveva parlato… con un grido, aveva ordinato a Scyld di fermarsi.
Scyld parve esitare, e poi si voltò, sorpreso, e rivolse uno sguardo interrogativo a Ywain.
«Ma, Altezza…»
«Vieni qui,» disse lei, e Carse vide che lei stava fissando la spada che Scyld impugnava… la spada di Rhiannon.
Scyld salì lentamente la scaletta, e ritornò sul ponte; il volto del soldato aveva un’espressione perplessa, ma anche impaurita. Ywain gli andò incontro.
«Dammela,» ordinò. E, quando vide che egli esitava, senza capire, esclamò, bruscamente. «La spada, idiota]»
Scyld diede la spada di Rhiannon alla donna, e Ywain la guardò, rigirandola tra le mani, in modo che la luce rossigna delle torce la rischiarasse… Ywain studiò la fattura e la perfezione della spada, l’elsa, con il suo gioiello solitario, che ardeva di fuoco fumoso… e i suoi occhi si posarono, come affascinati, sull’iscrizione che appariva sulla lama, sul simbolo che vi appariva.
«Dove l’hai presa, Scyld?»
«Io…» balbettò il soldato, portandosi istintivamente la mano al collare rubato, evidentemente timoroso di ammettere la provenienza della spada.
Con voce secca, spazientita, Ywain esclamò:
«Le tue ruberie non m’interessano affatto, Scyld! Dove hai preso la spada?»
Nervosamente, il soldato puntò il braccio, indicando il banco sul quale sedevano incatenati Boghaz e Carse.
«L’ho presa a quei due, Altezza, quando li ho catturati.»
Lei annuì, brevemente. Non pareva sorpresa.
«Portali nella mia cabina,» ordinò.
Poi volse le spalle alla scena, e scomparve all’interno della cabina. Scyld, con aria infelice, e completamente sconcertato, scese di nuovo verso la fossa dei rematori, per obbedire all’ordine ricevuto. In quel momento, Boghaz mandò un gemito.
«Oh, dei misericordiosi!» mormorò. «Ci siamo!» Si avvicinò ancor più a Carse, e gli disse, rapidamente, sorvegliando nel contempo con la coda dell’occhio il minaccioso approssimarsi di Scyld. «Devi mentire, come non hai mai mentito in vita tua! Se lei sospetta che tu conosci il segreto della Tomba, o lei o i Dhuviani riusciranno a strappartelo!»
Carse non disse niente. Stava compiendo uno sforzo tremendo per non perdere i sensi; non aveva tempo per pensare ad altro, per badare ad altro. Il pensiero era come una cosa viscida, che scivolava via, e minacciava di farlo cadere in un abisso di tenebre, profondo e oscuro come quello del tempo.
Scyld chiese del vino a gran voce, con una sequela di volgari imprecazioni, e subito qualcuno si affrettò a portarglielo. Allora il soldato costrinse Carse a berne qualche sorso, poi aprì le catene che tenevano legati Carse e Boghaz al remo, e li guidò verso il ponte.
Il vino, e la brezza notturna che soffiava sul ponte, rianimarono un poco Carse, dandogli l’energia sufficiente a permettergli di camminare diritto, senza barcollare e senza cadere. Il velo che ottenebrava la mente del terrestre si era lievemente dissipato, anche se la terribile sofferenza del corpo era qualcosa di vivo, di pulsante, che veniva alleviata solo perché ormai Carse aveva superato il limite della sopportazione umana, e al di là di quel limite il corpo non sentiva neppure il dolore.
Scyld li spinse, sgarbatamente, nella cabina di Ywain, che era illuminata dalle torce; la donna sedeva davanti alla spada di Rhiannon, che era posata su un prezioso tavolino intagliato, fissato con alcune borchie alla parete.
Sulla parete opposta si vedeva un’altra porta bassa, che portava in una cabina interna. Carse vide che quella porta era appena socchiusa, e da essa non filtrava alcuna luce. Eppure il terrestre aveva la sensazione che qualcuno… o qualcosa… fosse nascosto dietro quella porta, intento ad ascoltare ogni sua parola. E allora ricordò quello che gli avevano detto Jaxart e Shallàh.
C’era uno strano odore nell’aria… un odore leggero, appena percettibile, un odore di muschio, aspro e nauseante. Pareva venire da quella cabina socchiusa. E quell’odore produsse un effetto bizzarro, su Carse… senza sapere di che cosa si trattava, senza conoscere neppure il motivo di quella reazione, nel sentirlo provò un’avversione violenta, un odio bruciante che pareva nascere nella sua niente, in un angolo riposto e segreto.