Senza paura, senza neppure un attimo di esitazione, i due Nuotatori si tuffarono nelle acque spumeggianti, e i sottili cavi metallici cominciaarono, dopo qualche tempo, a tendersi, mentre Carse poteva vedere di quando in quando la testa dei due Nuotatori galleggiare come sughero tra i flutti, sempre più avanti. I due stavano nuotando, con sicurezza incredibile, in quella terribile distesa di rocce e scogli e onde tumultuose, stavano precedendo la galera nei rombanti Banchi.

«Vedi?» disse Boghaz. «Tra i Banchi, esiste un canale naturale… un passaggio, nel quale la galera potrà procedere senza correre il rischio di urtare ima roccia, e affondare. E loro riescono a trovare il passaggio, nuotando davanti alla nave. Con il loro aiuto, non esistono scogliere abbastanza pericolose, o rapide abbastanza mortali, da fermare una nave.»

Nel cupo, lento rullare del tamburo, che scandiva la battuta per i rematori, la galera nera avanzava tra le acque tumultuose.

Ywain era in piedi, diritta, con i capelli agitati dal vento, e l’usbergo che riluceva nel sole… ed era accanto al timoniere. Sia lei che Scyld guardavano avanti, con occhi socchiusi, per vedere meglio, per proteggersi dal riverbero delle bianche acque. Le acque agitate scorrevano intorno alla chiglia, la sollevavano con l’impeto delle onde, sibilavano e soffiavano e rombavano a ogni istante, a un certo punto, un remo urtò uno scoglio, spezzandosi. Ma lentamente, lentamente, attraverso il dedalo bianco e mortale dei Banchi, la galera riuscì a trovare la strada, e a raggiungere la salvezza.

Il passaggio, però, fu lungo e laborioso. Il sole saliva lentamente nel cielo, verso lo zenit. A bordo della galera, c’era una forte tensione, un’atmosfera di pericolo incombente, di attesa del peggio, che pareva una cosa viva, una stretta fisica intorno alla gola di ciascuno.

Carse riuscì a udire soltanto confusamente il rombo minaccioso delle onde che si frangevano sugli scogli, mentre lui e Boghaz lottavano ostinatamente, ciecamente con un remo che si era fatto troppo pesante, troppo ribelle, ora che anche le acque tempestose univano la loro forza a quella del legno, per frustrare gli sforzi dei due uomini. Era una specie di musica di morte, di minaccia, e pareva quasi che le onde rombassero seguendo il battito lento, grave del tamburo, fondendosi in un universo pulsante, nel quale solo il remo aveva importanza, solo il remo e la battuta e il sudore che scendeva copioso lungo il corpo, dalla fronte, sugli occhi. Il grasso Valkisiano pareva trovare, nella fatica, la forza per dare voce ai suoi lamenti; borbottava tra sé di continuo, gemendo e piagnucolando e maledicendo. Carse sentiva le braccia di piombo, e gli pareva che il suo cervello fosse serrato da una morsa d’acciaio.

Ma finalmente la galera ritrovò delle acque tranquille, dove le onde erano solo un dolce, placido rollio, e la bianca distesa del mare era appena increspata dalla brezza. I Banchi Neri erano passati, una massa biancheggiante e confusa ormai lontana, a poppa. Il rombo minaccioso e cupo che giungeva dalla strana scogliera era attutito, lontano. Le catene di filo di ferro vennero tirate a bordo, e, con esse, i Nuotatori risalirono sul ponte, per essere nuovamente incatenati al loro posto.

Allora, per la prima volta, Ywain abbassò lo sguardo sulla fossa dei rematori, sugli schiavi esausti chini sui remi.

«Date loro un po’ di riposo!» ordinò, rivolgendosi ai sorveglianti. «E… Scyld, ora voglio parlare di nuovo con quei due.»

Carse seguì con lo sguardo Scyld, che attraversava il ponte e discendeva rapidamente la scaletta. Dentro di sé, il terrestre avvertiva un cupo presentimento, e uno strano senso d’angoscia.

Lui non voleva ritornare in quella cabina. Lui non voleva rivedere quella porta socchiusa, con quella fessura che pareva irriderlo e schernirlo, e soprattutto non voleva più sentire quell’odore sgradevole, nauseabondo.

Ma lui e Boghaz vennero di nuovo slegati, e condotti a prua, e non c’era niente, niente che egli potesse fare per opporsi ai soldati che lo scortavano.

La porta della cabina si chiuse alle loro spalle, con uno scatto che parve stranamente definitivo, irrevocabile. Scyld, Ywain dietro il tavolino intarsiato, con la spada di Rhiannon che scintillava nel chiarore delle torce. Lo stesso odore che aleggiava nell’aria. E la porticina bassa della cabina interna, appena socchiusa… appena socchiusa. Immagini, immagini, immagini, quasi come la prima volta… e l’odore, e il pensiero, il pensiero dietro le immagini.

Le immagini si animarono. Il silenzio fu spezzato.

Ywain parlò.

«Hai avuto un primo assaggio di quel che ti posso fare,» disse lei. «Vuoi anche il secondo? O preferisci dirmi, adesso, dove si trova la Tomba di Rhiannon, e cosa vi hai trovato?»

Carse rispose, con voce piatta, priva d’inflessioni:

«Ti ho già detto che non lo so.»

Ma non stava guardando Ywain. La porta interna lo affascinava, tratteneva il suo sguardo irresistibilmente. Qualcosa, nei recessi più profondi della sua mente, parve riscuotersi, e destarsi. Qualcosa di oscuro e di inesplicabile. Era una prescienza, un odio immenso, un orrore innominabile, un tumulto che lui non riusciva a capire.

Ma riusciva a capire ugualmente, fin troppo bene, che quello era il momento culminante, il momento della fine. Un brivido profondo percorse il suo corpo, ed egli s’irrigidì, senza volerlo.

«Che cos’è tutto questo, che io non conosco e che pure quasi mi sembra di ricordare?»

Ywain si protese verso di lui, ansiosa.

«Tu sei forte. Sei orgoglioso di questa tua forza. Sei sicuro di poter sopportare qualsiasi punizione fisica, forse più di quante io osi infliggertene. E io credo che tu possa davvero resistere. Ma vedi, non esistono soltanto le punizioni fisiche. Esistono degli altri metodi per fare parlare un uomo, metodi più rapidi e più sicuri, dai quali neppure l’uomo più forte è capace di difendersi.»

Seguì la direzione dello sguardo del terrestre, fisso sulla porta interna socchiusa.

«Forse,» aggiunse, a bassa voce, «Hai già capito a che cosa alludo.»

Ora il volto di Carse era privo di qualsivoglia espressione, non rivelava nulla, appariva esteriormente impassibile. L’odore di muschio lo prendeva alla gola, aspro e denso come fumo, e quasi lo soffocava. Lo sentiva insinuarsi in lui, torcersi e pulsare, come fumo, riempire i suoi polmoni, infiltrarsi crudelmente nel suo stesso sangue. Velenoso, sottile, crudele, e freddo, freddo di un gelo primievo. Vacillò, ma il suo sguardo fisso non perse nulla della sua intensità. Anche se il suo corpo tremava, i suoi occhi non si abbassavano.

Egli disse, raucamente:

«Credo di sì. Credo di poterlo immaginare.»

«Bene. Allora parla, e non ci sarà bisogno che quella porta si apra.»

Carse rise, un suono basso, aspro e soffocante. I suoi occhi erano strani e velati.

«E per quale motivo dovrei parlare? Tu mi uccideresti ugualmente, più tardi, per impedirmi di rivelare ad altri il segreto.»

Fece un passo avanti. Si rese conto di muoversi. Si rese conto di avere parlato anche se il suono della sua stessa voce gli giungeva vago e indistinto alle orecchie.

Ma dentro di lui gravava una tenebrosa confusione. Le vene delle tempie gli si erano ingrossate come corde, e il sangue pulsava martellante nel cervello, e nel suo cervello c’era una pressione, una pressione tremenda… pareva quasi che ci fosse qualcosa, in lui, che voleva spezzare i legami, e liberarsi.

Non capì per quale motivo avanzasse verso la porta, un passo dopo l’altro, lentamente, ma con sicurezza. Non capì per quale motivo avesse gridato, con una voce che non era la sua:

«Apri dunque, Figlio del Serpente!»

Boghaz si lasciò sfuggire un gemito di orrore, e si rannicchiò in un angolo, nascondendo il viso. Ywain trasalì, e si alzò in piedi, attonita e improvvisamente pallida. La porta cominciò lentamente ad aprirsi verso l’interno.


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