Non c’era nulla dietro quella porta, se non l’oscurità, e un’ombra. Un’ombra incappucciata e avvolta in un nero mantello, e così immobile, nell’oscurità della cabina, un’oscurità che neppure la luce dell’altra cabina riusciva a dissipare, che non poteva definirsi neppure un’ombra, ma solo il fantasma di un’ombra.

Ma era là. E l’uomo Carse, prigioniero della trappola del suo strano destino, la riconobbe per quello che era.

Era paura, l’antica e malvagia cosa che già strisciava tra le prime erbe della creazione, staccata dalla vita ma coi suoi occhi gelidi e astuti fissi su di essa, ridendo il suo riso silenzioso, donando soltanto la morte più amara.

Era il Serpente.

La scimmia primordiale che viveva in Carse ebbe l’impulso di fuggire, di nascondersi; ogni cellula della sua carne si ritraeva, ogni istinto lo metteva in guardia.

Ma egli non si voltò, non cercò di fuggire, perché c’era una collera, in lui, che crebbe fino a soffocare la paura, fino a cancellare Ywain e gli altri, fino ad annullare ogni cosa, lasciando in lui il desiderio, la feroce volontà di distruggere, di annientare la creatura che stava nascosta oltre la luce.

La sua collera… o qualcosa di più grande? Qualcosa che nasceva da una vergogna e da una sofferenza ch’egli non avrebbe mai potuto conoscere?

Una voce gli parlò dall’oscurità, sibilante e dolce e sommessa.

«Tu l’hai voluto. E sia.»

C’era un silenzio totale, terribile, nella cabina. Scyld era indietreggiato, appoggiandosi quasi alla parete più lontana, e perfino Ywain si era ritirata, raggiungendo l’estremità più lontana del tavolo. Boghaz, rannicchiato nel suo angolo, in preda al terrore più abietto, non osava neppure respirare.

L’ombra si era mossa, con un lieve, secco fruscio. Si era alzata. Una macchia di luce fievole era apparsa, sorretta da mani invisibili… una luce che però non irradiava chiarore. A Carse parve un anello, una corona di minuscole stelle, incredibilmente distanti.

Le stelle cominciarono a muoversi, a ruotare nelle loro orbite invisibili, a girare veloci, sempre più veloci, fino a quando non si trasformarono in una ruota, una ruota di luce stranamente confusa, luminosa e offuscata a un tempo. Ora si udiva una sottile nota acuta, una melodia cristallina che era come l’infinito, perché non aveva principio e non aveva fine.

Era un canto, un richiamo, sintonizzato in modo che soltanto lui potesse udire? O non si trattava dell’udito, ma di qualcosa di diverso, di più sottile e intimo e penetrante?

Non riusciva a capirlo. Forse non udiva quella nota di cristallo con le orecchie, ma con la carne, con tutti i suoi nervi tesi e tremanti. Gli altri, Ywain e Scyld, e Boghaz, parevano immuni da quella strana, inesplicabile percezione.

Carse si sentì afferrare e pervadere da una sensazione di gelo. Era come se quelle minuscole stelle melodiose lo chiamassero dai più remoti recessi dell’universo, incantandolo nelle gelide profondità dello spazio, là dove il cosmo vuoto avrebbe succhiato da lui il calore e la vita.

I suoi muscoli si allentarono, i nervi parvero sciogliersi e scorrere via, portati da quell’ondata di ghiaccio. Sentì che il suo cervello si stava dissolvendo.

Cadde lentamente in ginocchio, mentre le minuscole stelle continuavano a cantare, sommergendolo con quella loro nota melodiosa, cristallina, vibrante. E ora riusciva a capirle. Riusciva a capire il senso di quella melodia, che era una voce, una voce purissima, che gli rivolgeva una domanda. Le stelle gli stavano ponendo una domanda, e lui sapeva che, quando avesse risposto, avrebbe potuto addormentarsi. Sapeva che non si sarebbe svegliato mai più, ma questo non aveva importanza. Ora aveva paura, ma se fosse venuto il sonno, esso gli avrebbe fatto dimenticare ogni paura.

Paura… paura! L’antico, antichissimo terrore razziale che perseguita l’anima, il terrore che scivola nelle tenebre silenziose…

Nel sonno e nella morte avrebbe potuto dimenticare la paura. Doveva solo rispondere a quella domanda ipnotica, che gli veniva bisbigliata sulle ali della melodia:

«Dove si trova la Tomba?»

Bastava rispondere. Bastava parlare. Ma qualcosa gli teneva ancora legata la lingua. Lo rossa fiamma della collera ardeva ancora dentro di lui, combattendo contro lo splendore delle stelle che cantavano.

Lottò, ma c’era troppa forza, troppa potenza, nel canto delle stelle. Udì il suono uscire lentamente dalle sue labbra aride, la risposta…

«La Tomba, il luogo in cui Rhiannon…»

«Rhiannon! Nero Padre che insegnò la sua potenza a te, a te che uscisti dall’uovo del Serpente!»

Il nome risuonò dentro di lui, come un grido di battaglia. Il fuoco della sua collera, acquietato dalla canzone delle stelle, divampò di nuovo, terribile, spaventoso. La gemma fosca sull’elsa della spada posata sul tavolino parve chiamare d’un tratto la sua mano. Con un balzo, egli l’afferrò.

Ywain si slanciò sulla spada quasi contemporaneamente, lanciando un grido, ma arrivò troppo tardi.

La grande gemma pareva ardere di luce terribile, raccogliendo la potenza delle stelle lucenti e cantanti, aumentandola, e respingendola, usandola come un’arma contro chi l’aveva usata prima.

Il canto di cristallo s’incrinò e si ruppe. La luce che non era luce impallidì, si spense. Era riuscito a distruggere quella strana ipnosi.

Il sangue ricominciò a scorrere impetuoso nelle vene di Carse. La spada pareva muoversi, nella sua mano, come una creatura viva, animata da una volontà propria. Egli gridò il nome di Rhiannon, e si lanciò avanti, nell’oscurità.

Udì un grido sibilante, nel momento in cui la lunga lama s’immergeva nel cuore dell’ombra.

Capitolo IX

LA GALERA DELLA MORTE

Carse si rialzò, lentamente, e si voltò sulla soglia, girando la schiena alla cosa che aveva ucciso, ma che non aveva visto, e che non desiderava vedere. Era sconvolto, paurosamente sconvolto, ed era pervaso da uno strano stato d’animo, una specie di esaltazione febbrile che confinava con la follia.

Era l’isterismo, pensava, che sopraggiunge quando si è sopportato troppo, quando le pareti si chiudono, non c’è via di scampo, e non resta altro che lottare, prima di affrontare la morte.

La cabina era immersa in un pesante silenzio, un silenzio gravido di attonita sorpresa, di infinito stordimento. Scyld aveva lo sguardo fisso e vitreo di un idiota, e aveva la bocca spalancata. Ywain aveva appoggiato una mano a un angolo del tavolino, ed era strano, immensamente strano scorgere in lei quel piccolo segno di debolezza. Neppure per un istante lei aveva distolto lo sguardo da Carse.

Lei disse, raucamente, sommessamente:

«Sei un uomo o un demone, tu che osi combattere Caer Dhu?»

Carse non rispose. Ormai non era più capace di parlare.

Il volto di Ywain galleggiava davanti ai suoi occhi annebbiati, come una maschera d’argento. Ora lui ricordava il dolore, la sofferenza, l’estenuante fatica e l’umiliazione del remo, le lunghe ore e i minuti interminabili, e le cicatrici che lui portava sul corpo, in ricordo del morso impietoso dello scudiscio. Ricordava bene la voce che aveva detto a Callus: «Dagli una lezione.»

Lui aveva ucciso il Serpente. Dopo questa impresa, uccidere una regina pareva una piccola cosa.

Cominciò a muoversi, per colmare la breve distanza che li separava, e c’era qualcosa di terribile nell’esasperata lentezza con la quale faceva i suoi passi, c’era una cupa determinazione, nel suo incedere, lui che era lo schiavo che ancora portava i cerchi di ferro ai polsi e alle caviglie, quei cerchi che lo avevano tenuto incatenato al banco dei rematori, lui che brandiva alta la grande spada, dalla lama scura di sangue alieno.

Ywain indietreggiò di un passo. La sua mano esitò, posandosi sull’elsa della spada che portava al fianco. La principessa non temeva la morte. Temeva invece la cosa che vedeva in Carse, la luce che ardeva implacabile nei suoi occhi. Il terrore che la paralizzò per un momento non nasceva dal corpo, bensì dall’anima.


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