«Anche questo avrei potuto farlo, qui, in questa stessa cabina.»
«E infatti hai tentato, ma non l’hai fatto. Bene… e allora?»
Carse non le aveva risposto. In quel momento aveva capito che, qualunque cosa avesse potuto farle, lei lo avrebbe sempre schernito, orgogliosa e beffarda, fino all’ultimo. In quella donna c’era un orgoglio d’acciaio.
Ma lui aveva lasciato un marchio indelebile su di lei, un marchio che neppure il suo orgoglio avrebbe potuto cancellare. La cicatrice che portava sulla guancia sarebbe guarita, e sarebbe impallidita, col tempo, ma non sarebbe mai scomparsa. Ywain non avrebbe mai potuto dimenticarlo, fino a quando fosse rimasta viva. E aveva provato una cupa soddisfazione, una gioia oscura e sorda, al pensiero di averle lasciato quel marchio.
«Non mi rispondi?» aveva detto lei, beffarda. «Per essere un conquistatore, sei molto indeciso!»
Irato, Carse aveva girato intorno al tavolino, per avvicinarsi a lei. Non le aveva risposto neppure allora, perché ancora non aveva trovato in sé una risposta. Ma aveva saputo soltanto di odiarla, come non aveva mai odiato nessuno in vita sua. Si era chinato su di lei, mortalmente pallido, con le mani aperte, avide.
Ywain era balzata in piedi, subitaneamente, e con le mani ad artiglio gli aveva cercato la gola. Le dita della donna erano state forti come l’acciaio, e le unghie erano affondate nella carne del terrestre.
Allora Carse le aveva afferrato i polsi, piegandoli selvaggiamente, per staccare quelle unghie dalla sua gola, e i muscoli delle braccia si erano tesi come corde, per combattere la forza incredibile di quella donna. Lei aveva lottato contro il terrestre, pervasa da una furia indomabile, e dalla forza della disperazione e dell’orgoglio, in silenzio, e poi, d’un tratto, aveva ceduto, rimanendo inerte e passiva. Aveva socchiuso le labbra, come per respirare meglio, e improvvisamente Carse le aveva chiuso la bocca con la sua.
Non c’era stato amore, né tenerezza, in quel bacio. Era stato un gesto di disprezzo virile, brutale e pieno d’odio. Eppure, per uno strano, breve momento, Ywain era rimasta passiva, accettando quel bacio… e poi aveva affondato i bianchi denti aguzzi nel labbro inferiore dell’uomo, mordendolo crudelmente, e la bocca di Carse si era riempita del sapore dolciastro e amaro del sangue, e lei aveva riso, una risata crudele, ironica, sprezzante.
«E ora, lurido barbaro,» aveva bisbigliato, «Anch’io ho impresso il mio marchio su di te.»
Carse era rimasto immobile a fissarla, per un lungo momento. Poi aveva alzato le braccia, e aveva brutalmente afferrato Ywain per le spalle, e la sedia era caduta, con un sordo fragore, dietro a lei, per la violenza del gesto.
«Avanti!» gli aveva detto lei, ansando. «Avanti, se ti fa piacere!»
Avrebbe voluto spezzarla con le sue mani. Avrebbe voluto…
L’aveva scostata da sé, con violenza, mandandola a sbattere contro la parete, e poi era uscito, e da quel momento non aveva più varcato la soglia della cabina.
E ora, stava accarezzando la cicatrice ancora fresca sul suo labbro, e osservava Ywain, che saliva sul ponte insieme a Boghaz. Si teneva diritta, nel suo usbergo gemmato, orgogliosamente eretta, come una regina, ma le linee intorno alla sua bocca erano più profonde, e gli occhi, malgrado tutto il suo amaro orgoglio, erano tristi.
Carse non andò da lei. Ywain fu lasciata sola con il suo guardiano, e Carse continuò a fissarla, nascostamente. Era così facile immaginare i pensieri che si agitavano nella sua niente. Lei sfava pensando a ciò che si provava stando sul ponte della propria nave, come una prigioniera. Lei stava pensando che quella cupa, dirupata costa che appariva lontano, davanti alla nave, era il simbolo della fine di tutti i suoi viaggi. Lei stava pensando che ormai era giunto il momento di morire.
E allora, dall’albero maestro, venne un grido acuto, gioioso.
«Khondor!…»
Dapprima, Carse poté vedere soltanto una grande rupe scoscesa, che torreggiava altissima sulle onde bianche, simile a un promontorio che sporgeva tra due fiordi. Poi, da quella rocca apparentemente spoglia, impervia e inabitabile, si levò un gran volo di Celesti, che si avvicinarono battendo le grandi ali nel vento, in così gran numero che l’aria parve pulsare di quel possente battito d’ali. E vennero anche i Nuotatori, come uno sciame di piccole comete che lasciavano una lunga coda di fiamma bianca sulle acque ondulate. E dall’imboccatura dei fiordi uscirono delle lunghe navi, più piccole e più snelle della galera, veloci come creature marine, con le fiancate protette da grandi scudi.
Il viaggio era finito. La nera galera di Sark venne scortata a Khondor, tra alte grida e acclamazioni.
E ora, Carse poteva comprendere il senso delle parole di Jaxart. La natura aveva costruito, con quello scoglio, una fortezza virtualmente inespugnabile, una fortezza difesa da ogni attacco proveniente dalla terraferma da una muraglia di invalicabili montagne, e difesa da ogni attacco proveniente dal mare da una scogliera proibitiva e inaccessibile, e con una sola via d’accesso, costituita dallo stretto fiordo tortuoso che si apriva a nord. E anche quell’apertura era protetta da grandi baliste, che avrebbero trasformato il fiordo in una trappola mortale per qualsiasi nave nemica vi si fosse avventurata.
Il canale tortuoso si allargava, alla fine, in una rada chiusa, protetta dalla roccia e dalla terra, un porto sicuro, che neppure il vento poteva attaccare. Le navi pirate dei Khond, i battelli da pesca, e una varietà d’imbarcazioni di provenienza straniera, riempivano il bacino, e la nera galera da guerra scivolò in mezzo a loro come una regina, verso l’ormeggio.
I moli e le scalinate ripidissime che portavano in alto, sulla sommità della rocca, ed erano unite grazie a gallerie coperte con la parte superiore della città, brulicavano di folla… c’era tutta la popolazione di Khondor, e c’erano le tribù alleate che avevano chiesto e trovato rifugio presso i Khond. Erano gente dall’aspetto rude e violento, dai corpi forti e solidi, e piacquero subito a Carse. Gli scogli e le montagne riecheggiavano delle loro alte grida di saluto e delle loro acclamazioni, che rimbalzavano tra le rocce impervie con la potenza del tuono.
Protetto da quel tremendo frastuono, Boghaz si affrettò a dire ansiosamente a Carse, per la centesima volta:
«Lasciami contrattare, per il nostro segreto! Posso ricavarne un regno per ciascuno di noi… e, se vuoi, molto di più!»
E per la centesima volta Carse rispose:
«Non ti ho mai detto di conoscere il segreto. E, anche se lo conoscessi, sarebbe mio.»
Boghaz imprecò, in un parossissmo di frustrazione, e domandò agli dei che cosa avesse mai fatto per meritare un simile trattamento.
Per un attimo, Ywain si voltò, e guardò negli occhi il terrestre, ma poi distolse subito lo sguardo.
Nuotatori a centinaia, ammantati di spuma luminescente, Celesti con le loro superbe ali ripiegate… e per la prima volta Carse vide le loro donne, creature di una bellezza così squisita, così incredibilmente perfetta, che faceva male guardarle… e poi, gli alti e biondi Khond, e gli uomini e le donne di tribù straniere, un caleidoscopio di colori e di metallo sfavillante. Le grandi funi di ormeggio vennero lanciate dai moli, furono raccolte dai marinai e assicurate saldamente agli anelli di metallo. E allora la galera catturata si fermò giunta finalmente in porto.
Carse scese a terra, alla testa della sua ciurma, e Ywain camminò eretta al suo fianco, portando le catene come se fossero state dei preziosi ornamenti d’oro, che lei aveva scelto di sua volontà per soddisfare una sua vanità.
Sul molo c’era un gruppo di uomini, un gruppo che rimaneva isolato dalla folla osannante, e che aspettava i nuovi arrivati. Era un manipolo di uomini duri e rudi, e guardandoli si aveva l’impressione che nelle loro vene l’acqua di mare scorresse al posto del sangue… erano incalliti veterani di molte battaglie, alcuni dal volto fiero e solenne, altri dal volto rosso e gioviale, e uno di loro aveva il volto e il braccio destro orribilmente sfigurati e segnati da molte cicatrici.