Thorn rise. E non era una risata piacevole a udirsi.

Il capo dei Nuotatori disse:

«Il mio popolo non agirebbe mai così.»

«Neppure il mio,» ribadì l’uomo alato.

«E tanto meno il mio!» Ora Rold era in piedi, rosso per la collera. «Tu sei uno straniero, Carse. Forse non capisci come vanno le cose, da noi!»

«No,» disse Thorn di Tarak, con tona strana, minacciosa dolcezza nella voce, più spaventosa di qualsiasi grido. «Restituitela al suo popolo. Mandatela via. Lasciate libera colei che ha imparato la pietà e la misericordia sulle ginocchia di Garach, che si è abbeverata di sapienza alla fonte dei suoi maestri di Caer Dhu. Lasciatela andare libera, in modo che possa lasciare ad altri il marchio delle sue benedizioni, come lo ha lasciato a me nel giorno in cui bruciò la mia nave.» I suoi occhi ardenti fissavano il terrestre, parevano quasi trafiggerlo. «Lasciatela vivere… perché il barbaro l’ama!»

Carse lo fissò, attonito. Si accorse, vagamente, che i Re del Mare erano tutti in piedi, ed erano protesi verso di lui… i nove capi guerrieri che avevano gli occhi di tigre, con le mani già posate sull’impugnatura delle spade. Vide che Ywain curvava le labbra in un sorriso beffardo, quasi ridendo di uno scherzo che soltanto lei poteva capire. E, d’un trattto, egli scoppiò in una grande risata.

Era una risata tonante, che gli scuoteva il corpo, che risuonava forte nella sala silenziosa.

«Guardate!» esclamò poi, e si voltò, ha modo che tutti potessero vedere, sulla sua schiena nuda, le cicatrici lasciate dallo scudiscio. «È forse una lettera d’amore, quella che Ywain ha scritto sul mio corpo? E se anche fosse… non era certo un canto di passione quello che il Dhuviano cantava, quando io l’ho ucciso!»

Si voltò di nuovo, con le guance infiammate dal vino bevuto, e dalla consapevolezza del potere che egli aveva su quella gente.

«Che qualcuno, tra voi, provi a ripeterlo, e sarò io stesso a staccargli la testa dal collo! Guardatevi! Che grandi sovrani, che geniali strateghi, intenti a disputarsi la vita di una sgualdrina, intenti a discutere scioccamente, per il solo piacere della vendetta!» Il suo tono si fece più veemente, più appassionato, e la sua voce vibrò nella sala. «Perché invece non vi unite, dal primo all’ultimo, e insieme lanciate un attacco contro Sark?»

Ci fu un improvviso tumulto, nel salone, rumore di panche e sedie smosse, di piedi che si muovevano, mentre tutti si alzavano in piedi e cominciavano ad agitare i pugni contro di lui, come un branco di lupi ululanti, sdegnati per la sua insolenza. Quei volti feroci e barbuti parevano domandare il suo sangue, quei pugni levati in alto parevano una sentenza di morte.

«Ma chi credi dunque di essere, figlio del deserto?» gridò Rold. «Non hai mai sentito parlare dei Dhuviani, che sono alleati di Sark, e delle loro terribili armi? Quanti Khond pensi che siano morti in questi ultimi, lunghi anni, cercando di combattere quelle armi?»

«Ma supponete di poter avere anche voi delle armi!» esclamò Carse. «Armi più potenti di quelle dei Dhuviani.»

Qualcosa, nella sua voce, penetrò perfino il muro di collera che circondava la mente di Rold. Il Re del Mare tacque per un istante, interdetto, e fissò Carse con aria minacciosa.

«Se le tue parole hanno un significato, e non sono soltanto un vaneggiamento dovuto ai fumi del vino, parla apertamente!»

«Sark non potrebbe resistervi,» disse allora Carse, «Se possedeste le armi di Rhiannon!»

Barbadiferro sbuffò, e disse, con aria di scherno:

«Oh, sì, le armi del Maledetto! Trova la sua Tomba, straniero, e gli strumenti di potenza che essa contiene, e ti seguiremo subito a Sark, come un solo uomo!»

«E allora dovrete mantenere questa vostra promessa!» gridò Carse alla folla, levando alta la spada. «Guardate! Guardate bene… c’è qualcuno, tra voi, che sappia riconoscere questa spada?»

Thorn di Tarak tese il braccio buono, e avvicinò a sé la spada, in modo da poterla esaminare meglio. E allora, dopo pochi istanti, la mano che teneva la spada cominciò a tremare. Sollevò lo sguardo, fissando gli altri in maniera strana, e disse, con una voce sommessa, tremante, nella quale vibrava un oscuro timore:

«È la spada di Rhiannon.»

Ci fu un momento di silenzio, un momento che pareva vibrare del respiro che tutti, nel grande salone, trattenevano, fissando il barbaro dalla lunga spada. E poi Carse parlò di nuovo, nel silenzio:

«Ecco la prova!» disse. «Io conosco il segreto della Tomba.»

Silenzio. Poi, un’esclamazione gutturale sfuggì a Barbadiferro, e subito dopo, un crescente, selvaggio tumulto, che divampò e si propagò come un incendio.

«Il barbaro conosce il segreto! Per gli dei, lo conosce davvero!»

«Sareste pronti ad affrontare le armi Dhuviane, se possedeste i ben più grandi poteri di Rhiannon?» domandò Carse.

Il clamore che seguì quelle parole fu tale, che ci volle del tempo, prima che Rold riuscisse a farsi ascoltare. Il volto dell’alto sovrano Khond era ancora dubbioso.

«Anche se possedessimo gli strumenti di potenza di Rhiannon, saremmo in grado di servircene? Non siamo neppure in grado di comprendere le armi Dhuviane catturate sulla galera.»

«Datemi il tempo di studiarle, e di provarle, e io risolverò il mistero del funzionamento degli strumenti della potenza di Rhiannon,» replicò Carse, con un tono nel quale vibrava una profonda, incrollabile fiducia.

E lui era sicuro di poterlo fare. Certo, ci sarebbe voluto del tempo, ma era certo che le sue conoscenze scientifiche gli avrebbero permesso di scoprire il funzionamento di almeno qualcuna di quelle armi create da una scienza aliena. Se su quel Marte del remoto passato esisteva qualcuno in grado di giungere alla chiave del segreto, quello era lui, Matthew Carse, che possedeva le conoscenze della progredita scienza terrestre del suo tempo. Non doveva, in fondo, scoprire con certezza la teoria in base alla quale quelle armi funzionavano: gli bastava di scoprirne l’uso.

Sollevò la grande spada sopra il suo capo, e la roteò nell’aria, scintillante nella luce rossastra delle torce fumose, e la sua voce fu un grido vibrante, poderoso:

«E se io vi armerò in questo modo, onorerete la vostra parola? Mi seguirete a Sark?»

Tutti i dubbi furono spazzati via da quella sfida, da quell’occasione mandata dagli dei per colpire finalmente Sark, dopo lunghi anni di sconfitte e di terrore, per affrontare il vecchio nemico almeno su di un piano di uguaglianza.

La risposta dei Re del Mare fu un solo grido, un tuono che parve scuotere le antiche pareti di pietra:

«Ti seguiremo!»

Fu in quel momento che Carse vide Emer. La fanciulla era salita sul palco dei Re del Mare, giungendo attraverso qualche passaggio segreto, e adesso era in piedi tra due gigantesche sculture, ancora incrostate del ricordo del mare, e i suoi occhi erano fissi su Carse, grandi e colmi di orrore.

Qualcosa, in lei, indusse tutti a voltarsi, perfino in quel momento, e a guardarla; come un richiamo irresistibile di pensiero, come il propagarsi di una sensazione che faceva voltare ogni uomo nella direzione in cui lei si trovava. E allora lei si fece avanti, nello spazio aperto davanti al tavolo. Indossava soltanto una bianca veste sciolta, e i suoi capelli le scendevano liberi sulle spalle. Era come se si fosse appena destata dal sonno, e camminasse ancora al centro di un sogno.

Ma era un sogno orribile. Un incubo, il cui peso gravava su di lei, la schiacciava, appesantendole il passo, tendendole affannoso il respiro, facendola avanzare lentamente, come se ogni passo le costasse un terribile sforzo; e perfino quei rozzi guerrieri avvertirono un soffio di quell’orrore senza nome sui loro cuori.

Emer parlò, e le sue parole furono chiare e misurate.

«Avevo già visto prima tutto questo, quando lo straniero venne davanti a me, ma allora le forze mi mancarono, e non potei parlare. Ma ora ve lo dirò. Voi dovete uccidere quest’uomo. Dovete distruggerlo, perché egli è pericolo, egli è tenebra, egli è morte, morte per noi tutti!»


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