— No.
— Ecco, in quell’occasione un giovane fisico che prestava la sua opera al Dipartimento mi raccontò la faccenda. Aveva letto il rapporto del colonnello, e dichiarò che se vi avessero permesso di rendere pubblica la vostra scoperta, voi oggi sareste il più famoso fisico vivente.
— Assolutamente vero.
— Ma questo colonnello… non ricordo il nome, ordinò che doveva essere dichiarato segreto di Stato.
— Quel colonnello era un incompetente presuntuoso, incapace persino di trovare il cappello che portava sulla zucca.
— Fu davvero una cosa tremenda dunque che il mondo venisse privato della vostra scoperta, o per lo meno dell’annuncio di essa. So infatti che non potete nemmeno parlarne.
— Uhm!
Quella sera non riuscii a cavargli altro, e mi ci volle una settimana per indurlo a farmi entrare nel suo laboratorio.
Era situato in un edificio che ospitava anche altri laboratori dove altri studiosi eseguivano le loro ricerche, ma lui non aveva mai voluto cedere la sua tana, nemmeno quando s’era ritirato dalla professione attiva, rifiutandosi di dare la chiave a chicchessia e tantomeno di farlo smantellare.
Quando ci entrai, il laboratorio puzzava come una cantina chiusa da secoli.
Il professore aveva bevuto, ma non abbastanza da avere le idee confuse. Mi fece una conferenza sulla matematica della teoria temporale e dello spostamento temporale, non alluse mai alla sua scoperta come al viaggio nel tempo ma mi avvisò di non prendere appunti, cosa che del resto non sarebbe servita a niente, perché quando Twitchell cominciava con — È perciò ovvio… per continuare un quarto d’ora senza fermarsi, parlava di cose ovvie solo per lui e il Padreterno.
Quando ebbe finito l’esposizione strettamente scientifica della sua teoria, trovai il momento di intervenire con una domanda: — Quel fisico mio amico — dissi — mi ha raccontato che l’unico neo nella vostra scoperta era che mancava la possibilità di calibrarla con esattezza, vero? Cioè, che sarebbe impossibile determinare l’ampiezza dello spostamento temporale.
— Cosa? Fesserie! Giovanotto, se una cosa non si può misurare, non appartiene alla scienza. — Borbottò un poco fra sé, come un pentolino in ebollizione, poi continuò: — Qua, adesso vi mostrerò io — e mi voltò le spalle per occuparsi dei suoi macchinari. Di essi, tutto quello che era visibile era il cosiddetto luogo temporale, una bassa piattaforma sormontata da una gabbia e munita d’un quadrante che avrebbe potuto andar bene per la manovra d’una caldaia o di una camera a bassa pressione.
— Avete qualche spicciolo? — mi chiese tornando a voltarsi.
Ne cavai di tasca una manciata, e lui scelse due pezzi da cinque dollari, quei begli esagoni di plastica verde menta emessi da pochi mesi. Confesso che glieli vidi prendere con una stretta al cuore, perché ero alquanto a corto di denaro.
— Avete un temperino?
— Sì.
— Allora incideteci sopra le vostre iniziali.
Eseguii, poi lui mi fece mettere le due monete, una vicina all’altra, sulla piattaforma.
— Prendete nota del tempo esatto. Io ho manovrato i comandi in modo che lo spostamento duri una settimana, con una differenza di sei secondi in più o in meno.
Guardai l’orologio, mentre il professor Twitchell contava: — Meno cinque… quattro… tre… due… uno… Via! — Non voglio dire che spalancai gli occhi per lo stupore, perché Chuck mi aveva già raccontato. Ma sentir raccontare, e vedere, son due cose diverse.
Il professore disse allegramente: — Ecco fatto! Torneremo qui fra una settimana a partire da stasera, e aspetteremo di vederne tornare una. Quanto all’altra… perché ne avete messo due, vero?
— Sì, certo.
— E io dov’ero?
— Ai comandi, professore, e cioè a tre metri e più di distanza dalla gabbia posta sulla piattaforma.
— Benissimo. Venite un po’ qui, adesso. — Mentre ubbidivo, lui si frugò in tasca. — Ecco qua uno dei vostri pezzi. L’altro lo riavrete fra otto giorni — e così dicendo mi porse un pezzo di cinque dollari verde, sul quale vidi subito le mie iniziali.
Non sapevo cosa dire, ma il professore non si aspettava commenti, perché continuò: — La vostra rivelazione mi aveva turbato, così la settimana scorsa sono tornato qui. Era più d’un anno che non ci mettevo piede… Ho trovato questa moneta sulla piattaforma, e ho capito che avevo usato… cioè che avrei usato l’apparecchio entro una settimana.
Guardai la moneta e la tastai.
— Dunque era nella vostra tasca, quando siamo venuti qui stasera?
— Certo.
— Ma come potevate averla in tasca se ce l’avevo in tasca io?
— Dio del Cielo, ragazzo mio, non avete occhi per vedere? Non avete un cervello da far funzionare? Siete incapace di assorbire un semplice fatto solo perché è inusitato ed estraneo alla vostra monotona esistenza? Voi l’avete presa nella vostra tasca stasera, e io l’ho mandata una settimana indietro. Avete visto che è scomparsa. Mercoledì scorso, io, venendo qui, la trovai e me la misi in tasca, e stasera vi ho fatto uno scherzo e ve l’ho messa sotto il naso. Si tratta della stessa moneta, o, per essere precisi, di un segmento posteriore della sua struttura spazio-temporale, con una settimana in più di logoramento e opacità, ma è pur sempre la stessa moneta, agli occhi del volgo. Anche se non più identica, in realtà, di quanto un adulto sia identico al bambino da cui si è sviluppato. È più vecchia, ecco tutto.
— Professore, provate a mandare me indietro di una settimana.
— Neanche parlarne! — tagliò corto lui.
— Perché? Il vostro apparecchio non serve per le persone?
— Certo che funzionerebbe ugualmente.
— Allora perché non acconsentite? Non ho paura. E pensate che avvenimento sarebbe per il libro se potessi riferire per esperienza personale che il dislocamento temporale Twitchell funziona.
— Potete farlo, dal momento che avete assistito all’esperimento con le monete.
— Sì — fui costretto ad ammettere — ma non mi crederebbero. E vero, ho assistito coi miei occhi alla sparizione delle monete, ma chiunque leggesse un mio racconto del fatto direbbe che sono un ingenuo, un visionario che s’è lasciato ingannare da un gioco di prestigio.
— Ma se sapete benissimo che…
— Vi assicuro che l’impressione sarebbe questa — insistetti. — Nessuno riuscirebbe mai a convincersi che io ho davvero visto un dislocamento temporale. Se invece fosse possibile rimandarmi indietro di una settimana, allora narrando per esperienza diretta, come dicevo…
— Sedetevi e statemi bene a sentire — m’interruppe bruscamente il professore, e così dicendo si mise a sedere. Per me non c’era posto, quindi dovetti restarmene in piedi. — Io ho fatto esperimenti con esseri umani, anni e anni fa, ed è appunto perché li ho già fatti che mi rifiuto di farne altri.
— Perché? Sono morti?
— Cosa? No, non dite sciocchezze! — Mi lanciò un’occhiata penetrante, e aggiunse: — Badate di non scrivere niente di questo nel vostro libro.
— Come volete, professore.
— Alcuni esperimenti di minore importanza su esseri viventi dimostrarono che era possibile sottoporli a dislocamento temporale senza che ne avessero a soffrire. Mi confidai in proposito a un collega, un giovanotto che insegnava disegno e altre materie alla scuola di architettura. In realtà, era più un tecnico che uno scienziato, ma mi andava a genio. Questo giovanotto, non c’è niente di male se ve ne dico il nome, Leonard Vincent, era ansioso di provare, e io ebbi la debolezza di accontentarlo. Ma volle sottoporsi a un esperimento in grande, con dislocamento di cinquecento anni.
— E allora?
— Che cosa ne posso sapere? Cinquecento anni, ragazzo mio! Non potrò vivere tanto da sapere cosa gli è successo.
— Credete che sia finito cinquecento anni nel futuro?
— O nel passato. Può essersi ritrovato tanto nel quindicesimo secolo quanto nel venticinquesimo, dato che le possibilità sono pari. Talvolta ho pensato che… No, si tratta solo d’una assonanza di nomi puramente casuale.