Non gli chiesi a cosa alludesse perché d’improvviso l’avevo indovinato, e mi si erano rizzati i capelli in testa al pensiero.

Ma scacciai subito quell’idea, perché avevo ben altri problemi. Inoltre non poteva trattarsi altro che di una coincidenza fortuita… Un uomo non può andare dal Colorado in Italia, per lo meno non poteva farlo, nel quindicesimo secolo.

— Comunque decisi di non tentare più. Mi ero reso conto che esperimenti del genere non erano scientifici, non aggiungevano niente a quanto già sapevo. Se era stato dislocato nel futuro, bene, ma se era finito nel passato… avrei potuto mandare il mio amico a farsi divorare dai selvaggi o dalle bestie feroci.

Oppure, pensai io, il mio amico avrebbe potuto diventare il Grande Dio Bianco. Ma non espressi questo mio pensiero a voce alta. — Io però non vi chiedo certo una dislocazione così ampia nel tempo — dissi invece.

— Vi prego di non parlarne più.

— Come volete, professore. — Finsi di arrendermi, ma non potevo lasciar cadere a quel modo l’argomento. — Scusate — aggiunsi — non si potrebbe fare almeno una prova?

— Come sarebbe a dire?

— Una prova dell’esperimento, disponendo tutto come se dovesse aver luogo, in modo che nel mio libro io possa descrivere fedelmente come avviene il procedimento; infatti ci sono ancora molti punti piuttosto oscuri… e poi smettere al momento di premere il bottone.

Il professore brontolò un poco fra sé, ma poiché aveva una gran voglia di dimostrarmi le meraviglie di cui era capace il suo giocattolo, finì per acconsentire. Prima di tutto mi pesò, poi pesò tante verghe di metallo quante erano necessarie per pareggiare i miei ottanta chili, e dopo avermi fatto entrare nella gabbia, depose le verghe in un altro punto della piattaforma.

— E adesso — aggiunse — visto che tutta questa rappresentazione è fatta in vostro onore ditemi anche di che ampiezza deve essere il dislocamento temporale.

— Potete determinarlo con precisione?

— Ve l’ho già detto. Dubitate della mia parola?

— Oh, no! Bene… oggi è il ventiquattro maggio, facciamo… facciamo trentun anni tre settimane un giorno sette ore tredici minuti e venticinque secondi fa.

— Avete voglia di fare lo spiritoso, eh? Quando ho detto che il mio lavoro è preciso, intendevo dire che ci può essere una percentuale d’errore di uno su centomila, quindi l’ora esatta non la posso garantire.

— Va bene — acconsentii per tagliar corto, roso com’ero dall’impazienza. — Facciamo allora trentun anni e tre settimane. Va bene?

— Ecco fatto.

— Già finito?

— Sì, è tutto pronto, salvo l’energia. Per un esperimento simile non potrei servirmi della tensione che ho usato per il dislocamento delle monete. Ma poiché si tratta di una finzione, è un particolare che non conta.

Lo guardai con un’aria delusa che non era affatto una finzione. — Allora significa che qui in laboratorio non avreste la corrente necessaria per lo spostamento di un corpo come il mio? Avete parlato in teoria, finora?

— Accidenti a voi! Non parlavo affatto teoricamente.

— Ma se non avete l’energia…

— Se proprio insistete, farò gli allacciamenti… Aspettate… — Andò in un angolo del laboratorio dov’era installato il telefono, e parlò per qualche minuto col guardiano notturno della centrale elettrica dell’università.

Discusse vivacemente per alcuni minuti, perché l’altro non era disposto ad acconsentire a una richiesta tanto insolita, ma alla fine fu accontentato, e tornò al pannello dei comandi. Dispose in modo diverso alcuni pulsanti, poi aspettò. Quando si accese una lampadina rossa, disse: — Ecco, ora abbiamo il voltaggio occorrente.

— Proprio come pensavo.

— E allora?

— E allora niente.

— Cosa volete dire?

— Quello che ho detto: che adesso non succederà proprio niente.

— Esatto, perché non ho girato l’interruttore principale. Se lo facessi voi sareste spostato di trentun anni e tre settimane all’indietro.

— Invece vi dico che se anche lo faceste non mi succederebbe niente.

Il professore s’incupì. — Fate apposta per offendermi — disse.

— Pensate pure quello che volete, professore. Io sono venuto qui per controllare la veridicità di una voce. Ho indagato, ho visto un laboratorio con strumenti strani e tante luci sopra, come si potrebbe vedere al cinema. Poi ho visto un grazioso gioco di prestigio… Quanto al resto, sì, ho sentito tante chiacchiere senza l’appoggio di un briciolo di prova. Voi dichiarate di aver scoperto una cosa che secondo me non si può effettuare. Hanno ragione quelli che vi credono matto…

Il poveretto era sull’orlo di un colpo apoplettico, ma io dovevo insistere perché soltanto così mi era possibile stimolare l’unico riflesso ancora efficiente in lui: la vanità.

— Venite fuori — balbettò con una voce strozzata. — Miserabile! Venite fuori che vi strangolo con le mie mani!

— Credete di farmi paura, nonno. Schiacciate il bottone, su, fatemi vedere come siete bravo… Provate… tanto non ci credo!

Lui guardava incerto da me al pulsante. — Un pallone gonfiato, ecco cosa siete — continuai io — un vecchio rottame pieno di bugie. Aveva ragione il colonnello del Dipartimento della Difesa. Non è vero che ha messo il sigillo del segreto sul vostro lavoro… ha messo il vostro incartamento nell’archivio degli inventori matti.

Questa volta non esitò più.

10

Mentre premeva il pulsante, avrei voluto gridargli di non farlo. Ma era troppo tardi: stavo già precipitando.

Il mio ultimo pensiero fu di terrore. Avevo tormentato a morte un povero vecchio che non mi aveva fatto niente di male… e non sapevo in che direzione sarei andato.

Peggio ancora, non sapevo se veramente sarei arrivato da qualche parte.

Poi il senso della caduta finì, con un tonfo. Ero realmente caduto, da un’altezza inferiore al metro credo, tuttavia, non essendoci preparato, ruzzolai come un sacco.

Poi, una voce disse: — Da dove diavolo venite?

Chi aveva parlato era un uomo sulla quarantina, quasi completamente calvo, ma robusto e ben costruito. Stava davanti a me, coi pugni sui fianchi e mi guardava con occhi intelligenti e penetranti che spiccavano nella faccia simpatica anche se momentaneamente accigliata.

Mi drizzai a sedere e vidi che mi trovavo su uno spiazzo cosparso di ghiaia e di aghi di pino. Accanto all’uomo c’era una donna, minore del compagno e molto graziosa, che mi guardava a bocca aperta.

— Dove sono? — chiesi stupidamente. Avrei fatto meglio a chiedere infatti: Quando sono? ma la domanda sarebbe sembrata ancora più pazzesca. Bastò un’occhiata per accertarmi che non potevo essere nel 1970, né nel 2001 perché in questi casi i succinti indumenti che quei due avevano addosso sarebbero stati limitati alla spiaggia. Dunque avevo sbagliato epoca.

Intanto l’uomo tornò a chiedermi: — Insomma, si può sapere da dove venite? — Alzò gli occhi e aggiunse: — Non vedo paracadute, fra i rami… e poi, cosa fate qui? Questa è una proprietà privata. E perché siete vestito in maschera?

Io non trovavo niente di strano nei miei vestiti, specie confrontandoli con i loro, ma tacqui. Altri tempi, altri costumi. La mia vita non sarebbe stata molto facile.

La donna posò una mano sul braccio del compagno e disse: — Calmati, John. Deve essersi fatto male.

L’uomo mi chiese se mi ero fatto male, e io, sebbene a fatica, riuscii a mettermi in piedi e dissi: — No, non mi pare. Solo qualche graffio, forse… Ma potreste dirmi che giorno è oggi?

— Eh? Sabato tre maggio.

— Scusatemi — mi affrettai ad aggiungere, vedendo il suo stupore. — Devo aver preso una botta in testa perché mi sento la mente confusa… Non mi ricordo più l’anno.

— Dovete aver preso una bella botta, amico. Siamo nel millenovecentosettanta.

Provai un sollievo indicibile.


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