Il medico era rimasto infatti a bocca aperta anche lui, al vederli, e appena ebbe ritrovato la voce, mormorò:

— Per la barba di Matusalemme! Chi vi ha curato quei denti?

— Co-e di-e?

Lui mi tolse la mano dalla bocca. — Come dite? — ripetei. — Chi mi ha fatto questo lavoretto? Ah, si tratta… di un lavoro sperimentale d’un medico… d’un medico indiano mio amico.

— Sapete che procedimento segue?

— No, non m’intendo di odontotecnica.

— Un momento… permettete che fotografi questo magnifico lavoro — e s’avviò verso gli apparecchi a raggi X.

— No, vi prego, dottore. Limitatevi a otturarmi questa maledetta carie.

Il dentista esitò, poi per fortuna rinunciò all’idea.

Per il resto, non ebbi fastidi, tanto più che nel 1970 io avevo abitato a Los Angeles e non a Denver e dintorni, quindi per il momento ero abbastanza tranquillo. Mentre sudavo sedici ore al giorno sui miei modelli, incaricai un’agenzia specializzata di indagare sul passato di Belle, e i risultati delle indagini furono tali per cui non mi pentii del denaro speso.

Belle non aveva perso tempo. Nata sei anni prima di quanto non tenesse a dichiarare, a diciotto risultava già sposata due volte. Uno dei due matrimoni però non era stato valido, in quanto il marito aveva già moglie. Quanto al secondo marito l’agenzia non era riuscita a scoprire se Belle aveva divorziato anche da quello. Comunque, in seguito aveva contratto altri quattro matrimoni, sebbene uno fosse dubbio. Con tutta probabilità giocava sul trucco della vedova di guerra chiamando come garante un uomo che non poteva rispondere perché morto. Aveva poi divorziato una volta, d’accordo col marito, e un altro marito era defunto. Non era improbabile che fosse tuttora sposata con gli altri. Anche la sua fedina penale era lunga, varia, interessante, ma era sempre riuscita a cavarsela con semplici multe, salvo una condanna a pochi mesi per truffa, nel Nebraska. Da quel momento c’erano delle lacune che l’agenzia non era riuscita a colmare, fino al giorno in cui era stata assunta da Miles e da me. La direzione dell’agenzia mi chiese se doveva fare ulteriori indagini, ma a me bastava così. Ne avevo saputo abbastanza, e inoltre avevo pensato che il mio giochetto poteva risultare pericoloso per me, rischiando di cambiare troppe cose qualora, a causa del mio intervento, si fosse rivolta su Belle l’attenzione di persone o di autorità con cui la donna aveva dei conti da saldare.

Nonostante che continuassi a lavorare come un dannato, ottobre mi piombò addosso senza che me ne accorgessi. Non avevo ancora fatto metà dei disegni da inviare insieme alla richiesta dei brevetti, né avevo pensato a organizzarmi per diffondere, e in un secondo tempo vendere, le mie invenzioni. Tutto questo per colpa della mancanza di tempo, tanto che cominciavo già a pentirmi di non aver chiesto al professor Twitchell di fare uno spostamento di trentadue anni invece che di trentuno. Avevo sottovalutato il tempo che mi sarebbe occorso, e sopravvalutato invece le mie capacità.

Non avevo mostrato le mie invenzioni ai Sutton non perché volessi tenerle nascoste ma perché preferivo evitare un mucchio di chiacchiere e di consigli inutili finché non fossero complete. L’ultima domenica di settembre i miei nuovi amici mi invitarono ad andare al Circolo Elioterapico con loro.

Poiché ero in ritardo sul programma di lavoro ero stato costretto a lavorare fino a tarda notte, e m’ero svegliato il mattino presto al torturante fragore d’una sveglia in modo da essere pronto per quando sarebbero venuti a prendermi. Fermai quello strumento di tortura ringraziando il cielo perché nel 2001 non ci sarebbero state più nefandezze simili, e corsi, ancora mezzo addormentato, al bar all’angolo per telefonare a John con l’intenzione di esimermi dall’impegno.

Fu Jenny a rispondermi. — Lavorate troppo, Danny. Un paio di giorni in campagna vi faranno bene.

— Non posso proprio — insistetti. — Devo lavorare. Mi dispiace.

John si inserì con l’altro ricevitore e disse: — Che sciocchezze state dicendo?

— Devo lavorare, John — ripetei. — Ne farei volentieri a meno, ma proprio non posso.

Tornai di sopra, infilai due fette di pane nel tostino, vulcanizzai qualche uovo, e mi rimisi al lavoro. Un’ora dopo bussarono alla porta.

Se io non andai al Circolo, quella domenica, non ci andarono nemmeno i Sutton, perché rimasero da me, e io mostrai loro i miei apparecchi. Jenny ammirò molto Dino Disegnatore anche se non poté apprezzarne le doti perché bisognava essere un disegnatore o un architetto per farlo, ma quello che la lasciò letteralmente a bocca aperta fu il Proteiforme Pete.

Aveva una Domestica Perfetta per i lavori di casa, e poteva quindi apprezzare il progresso che Pete costituiva nei suoi confronti.

John invece afferrò subito l’importanza di Dino Disegnatore, e quando gli feci vedere come avrei potuto fare la mia firma, con la mia scrittura, spingendo un paio di bottoni, le sue sopracciglia s’inarcarono e lui disse: — Meraviglioso! Ma così verranno licenziati migliaia di disegnatori.

— No, di anno in anno in questo paese si lamenta la scarsità di buoni tecnici. Questa macchina servirà a colmare la lacuna. Fra una trentina d’anni tutti gli studi di architetti e d’ingegneri saranno dotati di una macchina come questa. Non potranno farne a meno, vedrete, come la meccanica moderna non potrebbe fare a meno degli utensili elettrici.

— Parlate come se aveste la certezza di quello che dite.

— Infatti è così.

Guardò il Proteiforme Pete che stava in quel momento facendo ordine sul mio banco di lavoro, poi tornò a guardare Dino Disegnatore, e infine disse: — Sapete, Danny… qualche volta penso che quello che mi avete detto il giorno in cui ci siamo conosciuti doveva essere vero.

Mi strinsi nelle spalle. — Chiamatela seconda vista, invece, se volete… comunque io sono sicuro di quello che dico.

— D’accordo, ma che cosa intendete fare, per il momento, delle vostre invenzioni?

— Questo è il punto dolente, John — ammisi, aggrottando la fronte. — Sono un bravo ingegnere, e oserei dire un ottimo meccanico, ma come uomo d’affari non valgo niente. Vi siete mai occupato di brevetti, voi?

— No, ci vuole un legale specializzato.

— Ne conoscete uno onesto? Onesto e intelligente, anzi? Mi occorre subito. Devo fondare una società, chiedere dei brevetti, e trovare dei finanziatori… e ho pochissimo tempo disponibile.

— Perché?

— Perché devo tornare da dove sono venuto.

Lui si sedette e tacque a lungo. Finalmente disse:

— Di quanto tempo disponete?

— Nove settimane. Per essere precisi, nove settimane da giovedì prossimo.

Lui guardò le due macchine, poi tornò a guardare me. — Temo che dovrete rivedere i vostri programmi. Basteranno sì e no nove mesi. Avete appena i prototipi, e dovete cominciare dal principio.

— Lo so, John, ma non posso fare diversamente.

— Lo dite voi.

— No, non dipende da me. — Mi nascosi la faccia tra le mani, morto di stanchezza e preoccupato. — Volete occuparvi voi di tutto? — gli chiesi poi, rialzando la testa.

— Cosa?

— Occuparvi di tutto. Io non mi intendo affatto di questioni legali e commerciali.

— Danny, vi rendete conto di quello che mi state chiedendo? Fra l’altro potrei imbrogliarvi senza che ve ne rendeste conto, lo sapete? Le vostre invenzioni sono destinate a diventare una miniera d’oro.

— Lo so — risposi.

— E allora perché fidarvi ciecamente di me? Prendetemi per avvocato, invece, così potrò consigliarvi e tenere gli occhi aperti per voi, dietro compenso.

Cercai di pensare, con la testa che mi doleva. Avevo avuto un socio una volta… ma, accidenti, anche se ci si è già scottati le dita, non si può fare a meno di aver fiducia nel prossimo, altrimenti si dovrebbe vivere in una grotta come gli eremiti, dormendo con un occhio solo. Non c’era modo di essere sicuri di niente. La vita stessa era un susseguirsi continuo di pericoli e di tranelli.


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