— John — dissi — voi avete avuto fiducia in me, fin dal principio. Vi prego, aiutatemi. Ho assoluto bisogno di voi.
— Certo che vi aiuterà — intervenne Jenny, con la gentilezza che le era abituale.
Così diedi la procura a John perché si occupasse di tutta la parte commerciale della faccenda, e lui si consultò a sua volta con uno specialista in brevetti al fine di essere più sicuro. Non so se lo pagasse in moneta contante o se dividesse con lui parte della torta, perché non me ne interessai. Non davo più molta importanza al denaro: e poi, o John era quale speravo, o avrei fatto meglio trovare la famosa grotta.
Insistetti solo su due punti. — John — dissi — dobbiamo chiamare la ditta: Società Aladino per la Fabbricazione di Apparecchiature Automatiche.
— A me pare un nome un po’ lungo e strampalato. Perché non facciamo Davis Sutton? Suona più serio.
— Mi spiace, ma deve essere così, John.
— Davvero? Ve l’ha detto la vostra seconda vista?
— Può darsi. Marchio di fabbrica sarà una raffigurazione di Aladino intento a strofinare la lampada da cui esce il genio. Farò io lo schizzo. E un’altra cosa. La sede della Ditta sarà a Los Angeles.
— Cosa? Ma no, troppo lontano. Io abito a Denver. Perché non restare qui? C’è qualcosa in contrario?
— Niente. Anzi, Denver mi piace e mi ci trovo benissimo. Ma non è una città adatta a installarci una fabbrica. Le materie prime mancano, il personale adatto è scarso, mentre Los Angeles è molto più attrezzata.
— E lo smog?
— Fra pochi anni lo smog non ci sarà più. Troveranno il modo di evitarne la formazione, ve l’assicuro.
— Danny, voi avrete i vostri buoni motivi per insistere, ma anch’io ho i miei. Inoltre — e si rivolse a sua moglie, intenta a sferruzzare lì accanto — noi abbiamo sempre vissuto qui. Jenny è abituata all’aria fine e fresca di Denver, come volete che possa trasferirsi in California?
— Oh, io ne sarei felice! — esclamò inaspettatamente Jenny.
— Cosa? — disse John sbalordito.
— Sì, caro. Proprio l’altro giorno, vedendo una crosta di ghiaccio sulla piscina del Circolo, pensavo come sarebbe bello vivere in un paese dove fa caldo tutto l’anno.
Non ebbi bisogno d’insistere oltre per convincere John.
Mi fermai a Denver fino alla sera del 2 dicembre 1970, e dovetti farmi prestare tremila dollari da John perché ero rimasto all’asciutto. Ma per rassicurargli la restituzione, volli fissare un’ipoteca sul mio pacchetto azionario. Quando gliela portai, l’ultima sera, lui la fece a pezzetti che gettò nel cestino dei rifiuti. — Me li restituirete la prossima volta che ci vedremo.
— Cioè fra trent’anni.
— Non prima?
Tacqui pensoso. John non mi aveva mai chiesto di raccontargli per filo e per segno la mia storia da quando, il giorno del mio arrivo, aveva dichiarato che gli era impossibile credere al poco che gli avevo rivelato.
Finalmente mi decisi, e gli dissi che gli avrei raccontato tutto sul mio conto.
— Dobbiamo svegliare Jenny? — aggiunsi. — Anche lei ha il diritto di sapere.
— No, lasciamola dormire finché verrà il momento della vostra partenza. Jenny è un animo semplice. Dan. Non le importa chi siete e da dove venite, basta che le siate simpatico. Se lo riterrò opportuno, le parlerò io in un secondo tempo.
— Come volete.
Mi lasciò parlare senza interrompermi altro che per versarmi da bere, solo birra di zenzero: avevo i miei buoni motivi per non toccare un goccio d’alcol, e quando ebbi finito, lui disse: — Vi saprò dire il mio parere quando avrò constatato con i miei occhi i mutamenti che mi avete descritto riguardo agli anni a venire. Per il momento continuo a considerarvi il più simpatico matto piovuto dal cielo che io abbia mai conosciuto.
— Siete libero di pensare come meglio vi pare.
— Sono costretto a giudicarvi così, altrimenti divento matto io… e per Jenny non sarebbe piacevole. — Guardò l’ora, e aggiunse: — Sarà meglio svegliarla. Mi mangerebbe vivo se vi lasciassi partire senza averla salutata.
— Non mi sarei mai sognato di fare una cosa simile.
Mi accompagnarono in macchina all’aeroporto internazionale di Denver, e Jenny mi abbracciò a lungo, commossa, congedandosi da me al cancello. Alle undici, partii con l’aereo diretto a Los Angeles.
11
La sera seguente, 3 dicembre 1970, mi feci depositare da un tassi a un isolato di distanza dalla casa di Miles, con un buon anticipo sull’orario della mia prima visita laggiù, orario che non ricordavo al minuto. Quando mi avvicinai alla casa era già buio, ma vidi solo la sua macchina, accanto al marciapiede, così arretrai d’un centinaio di metri fermandomi in un punto da dove potevo vedere tutto il tratto del marciapiede, e attesi.
Avevo avuto il tempo di fumare due sigarette, quando vidi un’altra macchina fermarsi davanti alla casa di Miles, e spegnere i fanali. Aspettai due minuti, poi mi affrettai ad avvicinarmi. Era la mia macchina.
Non avevo la chiave, ma non me ne preoccupai. Distratto com’ero, m’era capitato spesso di dimenticare le chiavi, così avevo preso da tempo l’abitudine di tenerne un paio di riserva nel baule. Le presi, e salii a bordo. In quel punto la strada era in pendenza, così senza bisogno di accendere il motore la misi in moto e scesi fino alla successiva curva, per andare poi a parcheggiarla nel viottolo retrostante la casa di Miles, e sul quale si affacciava anche il suo garage. La porta di quest’ultimo era chiusa a chiave, ma sbirciando dietro i vetri sporchi della finestra scorsi una massa oscura nella quale riconobbi una vecchia conoscenza: il prototipo del Servizievole Sergio.
Le porte del garage non sono fatte per resistere all’attacco d’un uomo munito di punteruolo, per lo meno nella California del 1970. Dopo pochi secondi ero dentro. Sapevo che smontando Sergio a pezzi avrei potuto farlo stare nella mia macchina, ma per prima cosa volli accertarmi che disegni e progetti fossero nella nicchia sopra lo chassis, come sospettavo. C’erano, e li portai in macchina, poi mi misi a smantellare Sergio, lavoro che richiese poco tempo, dato che nessuno meglio di me poteva sapere com’era fatto.
Avevo appena portato sulla mia macchina l’ultimo pezzo, cioè lo chassis costituito dalla sedia a rotelle, quando sentii Pete mandare il primo lamento. Imprecando fra i denti contro di me per aver impiegato troppo tempo a smontare Sergio, corsi attorno al garage in modo da poter vedere distintamente nel cortile della casa. Lo spettacolo avrebbe avuto inizio subito.
M’ero ripromesso di godere fino in fondo il trionfo del mio gatto, ma non vedevo niente. La porta posteriore era aperta e attraverso la porta schermata si riversavano fiotti di luce nel cortile. Sebbene però sentissi urli, schianti, miagolii strazianti e strilli di Belle, non riuscivo a vedere niente. Mi avvicinai allora con cautela alla porta schermata, sperando di poter dare un’occhiata alla carneficina, ma quell’accidente era chiusa dall’interno. Era l’unico particolare che non rispondesse al previsto. Così mi frugai febbrilmente in tasca e dopo essermi rotto un’unghia nell’aprire il temperino riuscii a infilare la lama nella fessura e a sollevare il gancio. Feci appena in tempo a balzare indietro che Pete uscì con l’impeto di un motociclista che salta una siepe.
Caddi a sedere su un rosaio e mi ci volle del bello e del buono per liberarmi dalle spine. Ero così occupato che non mi preoccupai se Miles e Belle potessero uscire. Era un particolare che ignoravo, date le mie condizioni dell’altra volta, ma non avevo tempo di pensarci.
Quando mi fui rimesso in piedi, mi acquattai fra i cespugli arretrando oltre l’angolo della casa, perché dalla porta aperta usciva troppa luce. Ormai non mi restava da aspettare altro che Pete si calmasse. Prima, mi sarei ben guardato dall’avvicinarlo e dal toccarlo. Me ne intendo di gatti, io.