Mi sentii rombare le orecchie e per un istante mi si offuscò la vista. Tuttavia riuscii a rispondere con voce ferma: — Sì, Ricky. È proprio per questo che ti ho dato tutte quelle istruzioni.
Prima di lasciarla dovevo fare ancora una cosa, darle una busta precedentemente preparata, sulla quale avevo scritto: Da aprire alle morte di Miles Gentry. Dentro, c’erano i documenti inviatimi dall’Agenzia d’Investigazione e relativi alla poco edificante carriera di Belle. Così, se alla morte di Miles quell’arpia avesse per qualche suo losco motivo tentato di mettere le mani su Ricky, avrebbe trovato pane per i suoi denti. Infine le diedi l’anello con lo stemma del Politecnico (non ne avevo altri), e le dissi di conservarlo in pegno del nostro fidanzamento. — Quando ti sveglierai — le promisi — te ne darò un altro più bello.
Lei lo strinse nel piccolo pugno (era troppo largo perché potesse infilarlo al dito) e dichiarò: — Non ne voglio altri.
— Bene… E adesso saluta Pete. Non posso aspettare oltre.
Lei strinse a sé Pete, poi me lo porse, guardandomi con gli occhi pieni di lacrime: — Addio, Danny — mormorò.
— Non addio, Ricky, ma arrivederci. Saremo là ad aspettarti.
Quando tornai al villaggio erano le dieci. M’informai, e seppi che alle dieci e mezzo sarebbe partito l’elicottero di linea. Feci appena in tempo a cedere l’automobile a un rivenditore che me la pagò un’inezia, e salii sull’elicottero tenendo nascosto Pete: i gatti soffrono il mal d’aria e le Compagnie Aeree fanno un mucchio di difficoltà ad accettarli a bordo dei loro apparecchi. E così, alle undici passate da poco, potevo entrare nell’ufficio del signor Powell, alla Mutua Assicurazioni.
Powell si mostrò seccato che avessi affidato ad altri e non alla Società l’amministrazione delle mie azioni, ma quando gli consegnai tutto il denaro che avevo con me, dietro la minaccia di rescindere il contratto e recarmi alla Central Valley, non fece più obiezioni.
— Mi raccomando che la data del risveglio sia esatta — pretesi. — Comunque non oltre il 27 aprile 2001.
Lui apportò le dovute modifiche al contratto, ed entrambi vi apponemmo le iniziali.
A mezzogiorno in punto entravo nello studio del medico che mi guardò e chiese: — Avete bevuto?
— No. Sono sobrio come un giudice.
— Preferisco controllare — e mi esaminò come aveva fatto… ieri. Alla fine depose il suo martelletto di gomma e aggiunse: — Sono davvero stupefatto. In confronto a ieri siete in condizioni davvero magnifiche. Non l’avrei mai creduto possibile.
— Se sapeste, dottore…
Ma lui aveva altro da fare che sentire la mia storia, e del resto io non avevo la minima intenzione di raccontargliela. Non volevo finire in manicomio.
Accompagnai Pete nel reparto veterinario, dove gli praticarono una prima iniezione sedativa, e quando lo vidi addormentato tranquillo mi sottoposi a mia volta ai procedimenti d’uso. Forse avrei potuto aspettare qualche giorno ancora, ma ormai avevo fatto tutto quello che dovevo fare, ed ero ansioso di tornare nel 2001.
Così, verso le quattro del pomeriggio, con Pete sdraiato sullo stomaco, scivolai felicemente per la seconda volta nel Lungo Sonno.
12
Stavolta i miei sogni furono più piacevoli. L’unico brutto che ricordi era uno in cui, freddo e tremante, cercavo, lungo un interminabile corridoio su cui si aprivano molte porte, quella che dava sull’estate, perché dall’altra parte di quella porta mi aspettava Ricky.
I miei movimenti erano impacciati da Pete che mi precedeva seguendomi, secondo la poco lodevole abitudine che hanno i gatti di intrufolarsi fra i piedi delle persone che camminano, col rischio di essere pestati o presi a calci.
Proprio davanti a ogni porta mi si cacciava tra i piedi, sporgeva il muso, e sentendo che dall’altra parte era inverno, si ritraeva spingendomi, quasi, indietro.Con tutto ciò, né io né lui rinunciavamo ai tentativi.
Anche il risveglio fu più agevole, questa volta, e non ebbi bisogno di ambientarmi. Anzi, il medico rimase sorpreso constatando con quanta naturalezza chiedevo la colazione e una copia del Times, senza mostrare meraviglia davanti alle prodezze di Pronto-agli-Ordini.
Mi consegnarono un biglietto, datato una settimana prima, a firma di John Sutton. Diceva:
Caro Dan, confesso che mi sono dato per vinto. Dunque: come avete fatto? Spero che vorrete venire presto a salutare me e Jenny, alla quale ho tuttavia spiegato che per qualche tempo avrete molto da fare. Stiamo tutti e due bene e siamo in forma, anche se qualche volta ho il fiato un po’ grosso, Jenny, invece, è più carina che mai.
Hasta la vista, amigo John.
P.S. Se la direzione del Ricovero lo permette, telefonateci… gli affari vanno a gonfie vele. Spero che sarete contento di noi.
Presi in considerazione l’idea di chiamare John, sia perché avevo voglia di salutarlo, sia perché desideravo esporgli un’idea colossale che mi era maturata nel cervello mentre dormivo… un congegno grazie al quale prendere un bagno sarebbe diventato una delizia degna di un sibarita. Ma rinunciai, per il momento, perché avevo altro per la testa. Mi limitai a prendere qualche appunto per ricordare meglio in seguito, e mi accinsi a schiacciare un pisolino con Pete in braccio, secondo un’abitudine piacevole ma a volte fastidiosa, perché a lungo andare vengono i crampi.
Lunedì 30 aprile uscii dal Ricovero per andare a Riverside dove affittai una stanza alla Locanda della Missione, vicino al Ricovero di quel quartiere.
La mattina seguente mi presentai al direttore del Ricovero, gli dissi chi ero, e gli chiesi se fra i suoi clienti ce n’era una che si chiamava Federica Virginia Heinicke.
— Avete documenti d’identificazione? — mi chiese.
Gli mostrai la patente di guida del 1970, rilasciata a Denver, e il certificato d’uscita dal Ricovero. Lui li esaminò attentamente, mentre io continuavo, con ansia: — Credo che debba uscire dal Sonno domani. Sapete se nel suo contratto vi sia una clausola per cui io posso essere presente al risveglio? No, non alludo ai preliminari, ma all’attimo in cui riprenderà definitivamente coscienza.
Lui mi sbirciò ancora, poi dichiarò, con esasperante lentezza: — La nostra cliente non vuol essere svegliata a un data precisa.
— No? — dissi con apprensione, senza capire il perché di questo particolare.
— No. Nel suo contratto c’è una clausola secondo la quale dobbiamo richiamarla alla vita solo quando sarete venuto voi! — e sorrise.
— Grazie, dottore! — esclamai con indicibile sollievo.
— Aspettate nella sala qui fuori — aggiunse il direttore — e fra due ore potrete tornare.
Non essendo capace di stare fermo, portai Pete a fare due passi.
La sera prima gli avevo comprato una borsa nuova, nella quale avevo fatto inserire un finestrino laterale di plastica trasparente, ma lui non pareva apprezzare le mie premure. Evidentemente aveva nostalgia di quella vecchia, rimasta in casa di Miles… trent’anni prima.
Per ammazzare il tempo, mi fermai a fare colazione in un simpatico ristorante, ma non riuscii a mandare giù niente. Pete mangiò anche la mia porzione di uova, ma scartò la pancetta fritta agitando la zampa con disgusto.
Alle undici e mezzo ero già al Ricovero, e dopo un’altra mezz’ora di estenuante attesa finalmente me la lasciarono vedere. Tutto quello che riuscii a scorgere di lei fu l’ovale del viso. Il resto era avviluppato nelle lenzuola, ma subito riconobbi la mia Ricky, cresciuta, e somigliante a un angelo addormentato.
— Fra poco si sveglierà — mi spiegò il dottor Ramsey, il direttore — si trova immersa nel sonno ipnotico… Uhm, forse sarebbe meglio mettere fuori il gatto.
— Mi spiace, dottore, ma il gatto resta.