«Dove pensi che avvenga la perdita?»
«Nell’ossatura, naturalmente.»
«Si tratta forse di quella vecchia apertura vicino al Polo Nord?»
«Ne dubito. È stato troppo improvviso. Temo che sia una foratura nuova.»
Norden ebbe un’espressione seccata. Di forature dovute a polvere meteorica se ne verificavano due o tre all’anno su un’astronave della mole dell’Ares. Di solito si lasciava che si accumulassero prima di pensare a ripararle, ma questa sembrava un po’ troppo rilevante per venire ignorata.
«Questo è il guaio» disse Hilton. «Abbiamo un solo rivelatore, e ben cinquantamila metri quadrati di ossatura da ispezionare. Si possono perdere anche un paio di giorni. Ora, se si fosse trattato di un unico bel buco grosso avremmo potuto mettere in azione le paratie automatiche che ce l’avrebbero individuato subito.»
«Meno male che questo non è possibile» disse Norden ridendo. «Altrimenti una spiegazione qualsiasi avremmo dovuto pur darla!»
Jimmy Spencer, al quale come al solito venne affibbiato anche quell’incarico di cui nessuno si voleva occupare, trovò il guasto dopo tre giorni e dodici giri d’ispezione. Il minutissimo foro era appena visibile ad occhio nudo, ma il rivelatore supersensibile aveva immediatamente registrato che in quella parte dello scafo il vuoto non era a tenuta perfetta. Jimmy aveva segnato il punto col gesso ed era rientrato tutto soddisfatto nel compartimento stagno.
Norden andò a scovare le varie piante della nave. Basandosi sul rapporto di Jimmy localizzò con sufficiente approssimazione l’ubicazione dell’avaria. Subito emise un fischio significativo e i suoi occhi si levarono al soffitto.
«Jimmy» disse «il signor Gibson sa che cosa sei andato a fare all’esterno?»
«Nossignore» rispose Jimmy, «gli ho dato la solita lezione di astronautica, per quanto non sia molto facile fargli entrare in testa…»
«Bene. Adesso ascoltami con attenzione. Quella maledetta foratura è proprio nel bel mezzo della parete della sua cabina, e se tu gli ripeti anche soltanto una parola di quello che ti ho detto, ti scuoio. Intesi?»
«Sissignore» disse Jimmy, poi uscì a precipizio.
«E adesso?» fece Hilton, rassegnato.
«Dobbiamo sloggiare Martin con un pretesto qualsiasi e turare il buco il più in fretta possibile.»
«Curioso però che non se ne sia accorto. Deve aver fatto un gran baccano, quando è successo.»
«Probabilmente in quel momento non era in cabina. Mi sorprende invece che non abbia mai notato la fuga d’aria, che dev’essere piuttosto forte.»
«Ma probabilmente è mascherata dalla circolazione normale. Comunque perché tante storie? Perché non spiegargli tranquillamente quello che è successo? Mi sembra inutile usare tanti stratagemmi.»
«Davvero? Ne sei proprio sicuro? Immagina se Martin va a raccontare ai suoi lettori che una meteora di grandezza dodici ha bucato la nave… e seguita poi a sostenere che guai del genere si verificano un viaggio sì e uno no. Quanti tra il pubblico capiranno che non esiste un pericolo effettivo, e che per giunta anche quando succedono fatti del genere noi non ce ne preoccupiamo più che tanto?»
«E allora perché non dirglielo pregandolo soltanto di tenere la bocca chiusa?»
«Perché non sarebbe giusto. Chiedere proprio a un giornalista di tacere dopo settimane che non ha una sola notizia da raccontare!»
«E va bene» disse Hilton con un sospiro. «L’hai voluto tu. Non ti lamentare poi se andrà tutto a nostro danno.»
Gli aggeggi complicati avevano sempre affascinato Gibson, e la tuta spaziale era un aggeggio supernuovo da aggiungere alla già numerosa collezione di congegni che lui aveva studiato e descritto. Bradley era stato generoso di particolari per essere certo che lo scrittore ne avesse compreso bene il funzionamento. Non aveva nessuna voglia di portarlo fuori nello spazio e poi doverlo andare a cercare chissà dove.
Gibson si era dimenticato che i vestiti spaziali dell’Ares non avevano calzoni, ma che bisognava semplicemente sedercisi dentro, come in un sacco. Il che era alquanto sensato, dal momento che dovevano servire per muoversi in gravità zero e non già per camminare su pianeti senza aria.
La mancanza di gambali flessibili semplificava moltissimo la forma degli indumenti che erano semplici cilindri terminanti in un casco di perspex, materiale plastico molto più trasparente del vetro, e completati ai lati superiori da due braccia articolate. Lungo i fianchi correvano scanalature e rigonfi misteriosi entro cui si annidavano il condizionamento d’aria, una radio, i regolatori del calore, e un sistema di propulsione a basso regime. Nel loro interno, chi li indossava poteva godere una notevole libertà di movimenti: si potevano ritirare le braccia per maneggiare i vari controlli e persino per consumare un pasto leggero senza ricorrere a esercizi eccessivamente complicati.
Bradley aveva trascorso quasi un’ora nel compartimento stagno per accertarsi con il massimo margine di sicurezza che Gibson avesse ben compreso l’uso dei diversi controlli senza pericolo di commettere errori. Il giornalista aveva apprezzato la precisione del compagno, ma quando si accorse che la lezione non accennava a finire cominciò a dare segni palesi di impazienza. E quando Bradley attaccò la spiegazione sull’uso dei dispositivi igienici dello scafandro, Gibson minacciò addirittura un ammutinamento.
«Basta» protestò. «Non vorrai che si stia fuori tanto!»
Bradley rise.
«Ti sorprenderebbe il numero delle persone che commettono questo errore.»
Aprì uno sportello e dall’armadietto inserito nella paratia del compartimento tolse due rotoli di filo che assomigliavano in tutto e per tutto a rocchetti da pescatore, e li inserì saldamente in speciali dispositivi montati sulle tute in modo che non si potessero staccare per una causa accidentale.
«Questa è la misura di sicurezza numero uno» spiegò. «Bisogna sempre avere uno di questi fili di salvataggio che ti ancorino ben bene alla nave. Tutte le altre regole si possono infrangere, ma non questa. E per essere ancora più sicuro, legherò la tua tuta alla mia con altri dieci metri di corda.»
La porta esterna scattò automaticamente di lato. Gibson sentì gli ultimi refoli d’aria appigliarsi a lui nella loro fuga. Quel debole impulso lo sospinse verso l’uscita, e lui scivolò fuori dolcemente in mezzo alle stelle.
La lentezza di ogni movimento e l’assoluto silenzio resero quell’istante particolarmente solenne. L’Ares si allontanava alle sue spalle con spaventosa ineluttabilità. Lui stava sprofondando nello spazio, nello spazio vero, finalmente, e il suo unico legame con la vita era quel tenue filo che si dipanava dal suo fianco.
Tuttavia quell’esperienza, pur così nuova, gli risvegliò nella mente echi familiari.
La frizione del rocchetto arrestò il suo impulso quando la corda che lo legava a Bradley diede uno strattone. Si era quasi scordato il compagno. Bradley ora si stava allontanando a saetta dall’astronave grazie ai minuscoli razzi a gas situati alla base del suo scafandro, e si portava Gibson a rimorchio.
Gibson rimase letteralmente senza parole quando la voce dell’altro, ripercotendosi con eco metallica nel casco della sua tuta, sbriciolò il silenzio.
«Non mettere in moto i tuoi razzi a meno che non te lo dica io. Non dobbiamo acquistare velocità eccessiva, e dobbiamo stare attenti a non aggrovigliare i nostri due fili.»
«Va bene» disse Gibson, vagamente seccato di quell’intrusione nel suo sacrario privato. Si voltò a guardare la nave: era già a varie centinaia di metri di distanza, e stava rapidamente rimpicciolendo.
«Quanto cavo abbiamo a disposizione?» chiese con ansia. Ma non ebbe risposta e per un attimo fu colto da un lieve panico, poi si ricordò che doveva premere il pulsante di trasmissione.
«Un chilometro circa» fu la risposta di Bradley non appena Gibson ebbe ripetuto la domanda. «È più che sufficiente per godersi in santa pace un po’ di solitudine.»