Forse ce n’erano stati, tanto tempo prima, quando l’atmosfera era sufficientemente densa da sostenere il volo degli insetti. Ora la riproduzione avveniva senza fecondazione.
George lo raggiunse e rimase lì a contemplare il panorama con indifferenza. A un tratto si scosse dai suoi pensieri per dire a Gibson con voce esile ma ancora chiaramente udibile a quella breve distanza: «Questo sì che è divertente! State fermo per favore e osservate quella pianta coperta dalla vostra ombra.»
Gibson obbedì alla bizzarra ingiunzione. Per un attimo non accadde niente. Poi vide che con estrema lentezza i fogli di pergamena si piegavano gli uni sugli altri. L’intero processo si svolse in circa tre minuti, al termine dei quali la pianta si era trasformata in una palla di carta verde, tutta spiegazzata e ridotta a un quarto delle sue dimensioni normali.
«Crede che sia notte» disse George, ridendo. «Se adesso vi muovete ci penserà su almeno mezz’ora prima di decidersi a riaprire bottega. Se seguitaste con questo trucco per tutta la giornata finireste col provocarle un esaurimento nervoso!»
«Queste piante servono a qualcosa?» chiese Gibson. «Intendo dire, sono commestibili oppure contengono qualche sostanza chimica importante?»
«Commestibili no di sicuro, perché anche se non sono velenose possono procurare disturbi gravi. Vedete, in realtà non hanno niente delle piante terrestri. Il loro verde è una semplice coincidenza. Non si tratta di… come si chiama quella roba?»
«Quale? La clorofilla?»
«Appunto. Non hanno bisogno di aria come le nostre piante, e tutto quello che serve lo prendono dal suolo. Infatti potrebbero benissimo crescere nel vuoto assoluto, come le piante della Luna, purché avessero un terreno adatto e luce solare a sufficienza.»
Un vero trionfo dell’evoluzione, pensò Gibson. Ma a quale scopo?, si chiese. Perché la vita si era aggrappata con tanta tenacia a quel piccolo mondo, nonostante tutto il male causatole dalla natura? Forse il Capo Supremo marziano aveva tratto una parte del suo ottimismo dalla lezione impartita da quelle piantine ostinate e risolute.
«Andiamo» disse George. «È ora di tornare.»
Gibson lo seguì docilmente. Non si sentiva più oppresso dal senso di claustrofobia che l’aveva angustiato prima. Coloro che si erano trasferiti su Marte per svolgervi un lavoro preciso e non avevano avuto quindi il tempo per immalinconirsi, probabilmente avevano superato quello stadio senza accorgersene. Lui invece era stato mandato lì apposta per raccogliere le proprie impressioni, e per il momento l’impressione dominante era un senso di smarrimento e d’impotenza, se confrontava il pochissimo che sino a quel momento l’uomo era riuscito a fare su Marte con gli smisurati problemi che ancora andavano risolti. Per cominciare, tre quarti del pianeta erano tuttora inesplorati. E questo dava in un certo senso la misura di quello che ancora restava da fare!
I primissimi giorni a Porto Loweìl erano stati per lui densi di emozioni e sensazioni nuove. La domenica, la passò col maggiore Whittaker il quale impiegò il suo tempo libero per accompagnarlo personalmente nel giro della città. Avevano cominciato dalla Cupola Uno, la prima a essere stata costruita, e il maggiore gli aveva descritto con orgoglio l’espandersi della cittadina (fondata da soli dieci anni) da un primo nucleo di baracche pressurizzate. Era divertente, e anche commovente notare che i coloni avevano usato, ovunque era stato possibile, i nomi familiari di strade e di piazze delle loro lontanissime città natali. C’era anche un sistema scientifico di numerazione delle strade, a Porto Lowell, ma nessuno se ne serviva mai.
La maggior parte delle case d’abitazione erano strutture uniformi in metallo, a due piani, dagli angoli arrotondati e con le finestre piuttosto piccole. In ognuna alloggiavano due famiglie, e non offrivano molto spazio, perché a Porto Lowell il tasso di natalità era il più alto di tutto l’universo, il che non doveva stupire, dato che la quasi totalità della popolazione oscillava tra i venti e i trent’anni al massimo, con qualche rara punta di quaranta per alcuni dirigenti amministrativi. Ogni casa aveva un bizzarro portico che incuriosì molto Gibson finché non gli spiegarono che in caso d’emergenza poteva funzionare da compartimento stagno.
Per prima cosa Whittaker l’aveva portato alla sede degli uffici, il principale e più alto edificio della città. Dal suo tetto si poteva, allungando una mano, toccare la cupola che gli si incurvava sopra. L’Amministrativo, come lo chiamavano, non offriva in sé niente d’interessante: era identico ai tanti palazzi d’amministrazione che si costruiscono sulla Terra, pieno di file di scrivanie, di macchine da scrivere e di schedari d’archivio.
Molto più interessante invece era il Centro Aria. Quello sì che era il vero cuore di Porto Lowell: se per un attimo avesse cessato di funzionare, la città e tutti i suoi abitanti sarebbero subito diventati una massa inerte, senza vita. Le nozioni di Gibson su come la colonia veniva rifornita di ossigeno erano sempre state alquanto vaghe. A un certo momento gli era parso anzi di capire che venisse estratto dall’aria circostante, ma aveva dimenticato che l’atmosfera rarefatta del pianeta conteneva meno dell’uno per cento del prezioso elemento.
Il maggiore Whittaker gli aveva mostrato l’enorme cumulo di sabbia rossa che era stata trasportata all’interno della cupola. Tutti la chiamavano "sabbia", ma in realtà aveva ben poco a che fare con la familiare sabbia terrestre. Si trattava di una complessa miscela di ossidi metallici.
«L’ossigeno che ci serve si trova tutto in questi minerali» spiegò il maggiore Whittaker indicando col piede il mucchio della polvere compressa. «Posso aggiungere che contengono anche quasi tutti i metalli conosciuti. Su Marte abbiamo avuto un paio di colpi di fortuna, e questo è certamente il più grosso.»
Si chinò e raccolse una zolla più compatta delle altre.
«In geologia non sono un gran competente» disse, «ma osservate un po’ questa roba. È quasi tutto ossido di ferro, mi dicono. Il ferro serve poco, naturalmente, ma gli altri metalli sono preziosissimi. L’unico o quasi che si può estrarre direttamente da queste sabbie è il magnesio. Le sabbie sono tutto quello che resta dell’antico Ietto marino. In Xanthe per esempio ci sono distese saline spesse un centinaio di metri, e quando serve sale basta andare là e prendere la quantità di cui si ha bisogno.»
S’inoltrarono nel basso edificio vivamente illuminato, verso cui confluiva su un trasportatore a nastro un fiume ininterrotto di sabbia. In realtà non c’era molto da vedere, e benché l’ingegnere di turno fosse più che disposto a spiegare all’ospite tutto il processo di trasformazione fin nei dettagli più minuti, Gibson si accontentò di imparare che i minerali venivano scissi in fornaci elettriche, dopo di che l’ossigeno veniva estratto, purificato, e compresso, mentre le diverse poltiglie metalliche erano sottoposte a tutto un susseguirsi di processi più complicati. Lì si produceva inoltre una notevole quantità d’acqua, sufficiente per i bisogni della colonia, per quanto sul pianeta esistessero anche altre fonti di questo liquido indispensabile.
«Oltre all’immagazzinamento dell’ossigeno dobbiamo badare a che la pressione atmosferica sia mantenuta al suo livello normale, e a sbarazzarci dell’anidride carbonica» spiegò il maggiore Whittaker. «Vi rendete conto, immagino, che la cupola si regge unicamente grazie alla pressione interna senza l’ausilio di altri sostegni.»
«Certo» disse Gibson. «Se la pressione venisse a mancare, tutto l’involucro si affloscerebbe come un pallone sgonfiato.»
«Proprio così. D’estate manteniamo una pressione di centocinquanta millimetri, d’inverno la alziamo leggermente. Questo ci consente di ottenere quasi la stessa pressione di ossigeno dell’atmosfera terrestre. In quanto all’anidride carbonica, ce ne liberiamo lasciando lavorare le piante per noi. Ne abbiamo importate apposta parecchie, poiché le piante marziane non seguono il processo di fotosintesi.»