Jimmy aveva due motivi per accompagnare Gibson nei suoi giri per la città. Prima di tutto il giornalista aveva il permesso di andare quasi ovunque, e così il ragazzo poteva visitare tutti i posti più interessanti che a lui invece sarebbero stati certamente preclusi. Il secondo era puramente personale, e consisteva nel suo crescente interesse per la personalità di Martin Gibson.
Per quanto ora fossero quasi sempre insieme, non avevano più riaperto la conversazione di quel giorno sull’Ares. Jimmy aveva compreso che Gibson desiderava essergli amico nel tentativo di rimediare, per quanto gli era possibile, a quello che gli era accaduto in passato. E Jimmy accettava queste profferte di amicizia abbastanza freddamente, da calcolatore, comprendendo bene quanto Gibson potesse essergli utile nella sua carriera. Gibson sarebbe forse rimasto sgomento se avesse saputo con quanta freddezza il ragazzo aveva valutato i vantaggi che gli sarebbero derivati dalla sua protezione.
Il fatto che portò nella vita di Jimmy un elemento nuovo e del tutto inatteso fu assolutamente banale. Era uscito solo, un pomeriggio, e poiché aveva sete era entrato nel locale di fronte al Palazzo dell’Amministrazione. Per sua disgrazia non aveva scelto il momento giusto, perché aveva appena iniziato a gustare lentamente la sua tazza di tè quando il locale era stato bruscamente invaso. Si trattava dell’intervallo di venti minuti durante i quali ogni lavoro cessava di colpo su Marte. Tale regola, che il Presidente aveva messo in vigore nell’intento di ottenere da tutti il massimo rendimento, non soddisfaceva più. La gente avrebbe preferito invece andare a casa venti minuti prima.
Jimmy fu subito letteralmente assediato da un esercito di ragazze che lo squadravano con imbarazzante candore e un’assoluta mancanza di diffidenza. Con le donne erano entrati anche una mezza dozzina d’uomini i quali si erano riuniti a un unico tavolo, quasi cercando mutua protezione, e a giudicare dalle loro espressioni assorte sembravano ancora immersi nelle preoccupazioni appena lasciate. Jimmy decise di finire in fretta il suo tè e di andarsene.
Di fronte a lui si era seduta una donna dall’aspetto alquanto autoritario, sulla trentina, probabilmente una segretaria di direzione, la quale stava chiacchierando con una ragazza molto più giovane di lei e che si era seduta al lato del tavolo più vicino a Jimmy. Sgusciare tra tutta quella folla senza travolgere nessuno fu una vera impresa, e mentre si faceva strada a fatica nello stretto passaggio fra i tavolini, Jimmy inciampò in un piede. Sentendosi cadere, si aggrappò disperatamente all’orlo del tavolo riuscendo a evitare un disastro completo, ma al grave prezzo di un sinistro scricchiolio del gomito finito con forza contro il piano di vetro. Nella confusione, e per il dolore, si dimenticò di non essere più a bordo dell’Ares, e sfogò la propria rabbia con un paio di parole tutt’altro che convenienti, quindi arrossendo furiosamente, si diresse verso l’uscita. Ma pur nella furia fece in tempo a notare che la donna più anziana faceva sforzi per non ridere mentre la ragazza, giudicando evidentemente stupido esercitare l’autocontrollo per un motivo così futile, sghignazzava allegramente senza il minimo ritegno.
Poco dopo però se n’era già dimenticato.
Fu Gibson a provocargli per puro caso, la seconda scarica emotiva. Stavano parlando della rapida crescita della città in quegli ultimi anni e chiedendosi se sarebbe continuata anche per l’avvenire. Gibson aveva messo in rilievo l’anormale distribuzione d’età causata dal fatto che nessuno al di sotto dei ventun anni aveva finora avuto il permesso di emigrare su Marte, così che sul pianeta esisteva un vuoto tra l’età di dieci e quella di ventuno, vuoto che però l’alto incremento demografico della colonia avrebbe presto colmato. Jimmy era stato ad ascoltare alquanto distrattamente, ma una frase di Gibson gli fece improvvisamente drizzare le orecchie.
«È curioso, però» disse. «Proprio ieri ho visto una ragazza che non poteva avere più di diciott’anni.»
Ma subito s’interruppe. Come una bomba a scoppio ritardato, il ricordo della faccia ridente della ragazza mentre lui usciva in modo tanto maldestro dal bar gli esplose nella mente.
Non intese neppure quello che Gibson gli disse, e che cioè doveva essersi ingannato. Sapeva una cosa sola: chiunque fosse e da qualsiasi parte venisse, quella ragazza lui doveva rivederla.
In un posto con le dimensioni di Porto Lowell, ritrovarsi era unicamente questione di tempo. Ma Jimmy non aveva intenzione di aspettare che le incerte leggi del caso gli venissero in soccorso. Il giorno seguente, poco prima del consueto intervallo, era là, nel piccolo bar.
La mossa, non eccessivamente astuta, gli aveva procurato una certa ansietà. Prima di tutto avrebbe potuto sembrare troppo ovvia. Ma, in fondo, non poteva essere lì anche lui con gli altri visto che quasi tutti i dipendenti dell’Amministrazione andavano in quel locale? L’obiezione più grave era stato il ricordo della pessima figura fatta il giorno precedente. Comunque Jimmy si fece coraggio ricordando una certa citazione che gli pareva facesse al caso suo e in cui si parlava di cuori teneri e di belle dame.
Tutti i suoi scrupoli si rivelarono inutili. Attese fino a quando il bar non fu nuovamente vuoto, ma né la ragazza né la sua compagna si fecero vive. Forse erano andate da un’altra parte.
Per un giovane pieno di risorse come Jimmy, quello era soltanto uno scacco temporaneo. La ragazza doveva certo lavorare nel Palazzo dell’Amministrazione, dove era facilissimo entrare con una scusa qualsiasi. Pensò di andarci a chiedere informazioni sul suo stipendio, per quanto questo motivo difficilmente l’avrebbe portato nei meandri dell’archivio dove quasi sicuramente la ragazza doveva lavorare in qualità di stenografa.
La cosa migliore sarebbe stata di tenere d’occhio l’edificio all’ora in cui il personale entrava o usciva, anche se non sarebbe stato facile mettersi lì di guardia senza farsi notare. Ma prima ancora di aver pensato uno stratagemma qualsiasi, ecco che entrò nuovamente in gioco il destino, ancora una volta travestito da un Martin Gibson sbuffante e affannato.
«Ti ho cercato dappertutto, Jimmy. Ti consiglio di correre subito a cambiarti. Lo sai che c’è uno spettacolo stasera? Bene, siamo stati tutti invitati a cena dal Presidente, prima del teatro, cioè fra due ore.»
«Che cosa si indossa su Marte per i pranzi ufficiali?» domandò Jimmy.
«Pantaloncini neri e cravatta bianca» rispose Gibson incerto. «O il contrario? Comunque ce lo diranno all’albergo. Spero che riescano a scovare qualcosa che si possa infilare senza scoppiarci dentro.»
Ci riuscirono, giusto per un pelo. L’abito di società su Marte, dove per il calore e l’aria condizionata i vestiti erano ridotti al minimo, consisteva in una camicia di seta bianca con due file di bottoni di madreperla, una cravatta nera a farfalla, e un paio di pantaloncini di raso nero guarniti di una larga cintura a maglia, di alluminio, cucita su un sostegno elastico. L’effetto era tutt’altro che inelegante, ma quando fu vestito Gibson si sentì qualcosa a metà tra un boy-scout e il Piccolo Lord. Norden e Hilton invece stavano benissimo, Mackay e Scott un po’ meno. In quanto a Bradley se ne infischiava altamente, come al solito.
La residenza del Capo era la più vasta abitazione privata esistente su Marte, anche se sulla Terra sarebbe stata considerata una casa meno che modesta. Prima della cena si riunirono nel soggiorno a fare due chiacchiere e bere uno sherry, sherry autentico. Era stato invitato anche il maggiore Whittaker, seconda autorità dopo Hadfield, e nell’ascoltarli mentre parlavano con Norden, Gibson capì per la prima volta con quanto rispetto e ammirazione i coloni considerassero quegli uomini che rappresentavano il loro unico legame con la Terra. Hadfield stava facendo il panegirico dell’Ares con veri e propri accenti lirici per la sua velocità e il suo carico utile, e per i risultati che se ne sarebbero tratti a favore dell’economia marziana.