Presi dallo sgomento, tacquero tutti, a lungo.
«E allora, cosa facciamo?» disse infine Gibson.
Per un attimo si immaginò una marcia di mille chilometri attraverso il deserto sino a Charontis, ma la visione già di per sé preoccupante scomparve subito. Non era possibile trasportare l’ossigeno sufficiente per un percorso così lungo, e tanto meno i viveri e l’equipaggiamento necessari, senza contare che era impensabile trascorrere la notte sulla superficie marziana, nemmeno in prossimità dell’equatore. A meno di non avere l’equipaggiamento adatto.
«Dovremo cercare di farci individuare in qualche modo» rispose Hilton calmo. «Domattina saliremo su quelle colline e daremo un’occhiata in giro. Per ora vi consiglio di prenderla con filosofia.» Così dicendo sbadigliò e si stirò. Alto com’era, con quel gesto toccò il soffitto della cabina. «Comunque non c’è motivo immediato di preoccupazione. Abbiamo aria per diversi giorni, ed energia nelle batterie per scaldarci quanto vogliamo. Può darsi che si debba stringere un po’ la cinghia se dovremo restare qui più di una settimana, ma non credo che arriveremo a questo.»
Per una specie di tacito accordo, Hilton aveva assunto il comando della situazione. Forse non ne era neppure conscio, ma in realtà adesso il vero capo della spedizione era lui. Il pilota gli aveva delegato la propria autorità senza esitazioni.
«Phobos si alza fra un’ora, avete detto?» chiese Hilton al pilota.
«Sì.»
«E quando passa? Non riesco mai a ricordarmi che cosa faccia questa pazza luna tascabile.»
«Si leva a ovest e tramonta a est circa quattro ore dopo.»
«Perciò sarà in marcia verso sud intorno a mezzanotte?»
«Esattamente. Oh, Dio… questo significa che comunque non riusciremo a vederla. Rimarrà in eclissi per almeno un’ora!»
«Che razza di luna!» sbuffò Gibson. «Nel momento in cui ce n’è più bisogno, quella va a nascondersi!»
«Non importa» disse Hilton, come sempre calmissimo. «Sapremo ugualmente dov’è e potremo sempre tentare di metterci in comunicazione radio. Per stanotte è tutto quello che possiamo fare. Qualcuno ha un mazzo di carte, per caso? No. Allora Martin, perché non c’intrattieni con qualcuna delle tue storielle?»
Era una domanda provocatoria, e Gibson non si lasciò sfuggire l’occasione di ritorcela contro Hilton.
«Non ci penso nemmeno» rispose. «Sei tu quello che ha da raccontare storie veramente interessanti.»
Hilton s’irrigidì e per un attimo Gibson temette di averlo irritato. Sapeva che Hilton non amava parlare della sua spedizione su Saturno, ma era un’occasione troppo bella per lasciarsela sfuggire. Forse non si sarebbe più ripresentata. Sentire il racconto di quella spedizione poteva servire a rialzare loro il morale. Forse lo capì anche Hilton perché subito si rilassò e sorrise.
«Mi hai messo alle corde con molta abilità, Martin. E va bene, parlerò ma a una condizione!»
«Quale?»
«Nessuna domanda, intesi?»
«Come se fossi io quello…»
«E quando ne scriverai, perché sono certo che ne scriverai, dovrai prima farmi vedere il manoscritto.»
«D’accordo.»
Che l’uomo si fosse spinto fino a Saturno ma non su Giove che pure era tanto più vicino, incuriosiva ancora molti. Ma nei viaggi interplanetari il fattore più importante non è la distanza. Saturno era stato raggiunto per un singolare colpo di fortuna che sembrava ancora troppo straordinario per essere vero. Nell’orbita di Saturno ruota Titano, il maggiore satellite del Sistema Solare, grande circa due volte la luna terrestre. Sin dal lontano 1944 si era scoperto che Titano possedeva un’atmosfera. Non era un’atmosfera respirabile, ma aveva il pregio infinitamente superiore di essere composta di metano, un elemento ideale per la propulsione dei razzi nucleari. Questo aveva dato origine a una situazione unica nella storia del volo spaziale. Per la prima volta era possibile inviare una spedizione verso un mondo sconosciuto con la virtuale certezza che al suo arrivo essa avrebbe potuto rifornirsi di carburante a volontà.
L’Arcturus col suo equipaggio di sei uomini era stata lanciata nello spazio dall’orbita di Marte. Aveva raggiunto il sistema saturniano solo nove mesi dopo, con carburante appena sufficiente per atterrare su Titano. Quindi erano state messe in azione le pompe, e i grandi serbatoi erano stati riempiti attingendo dai miliardi di miliardi di tonnellate di metano là a disposizione di chi voleva, o meglio, poteva prenderseli. Andando a rifornirsi su Titano ogni volta che avevano bisogno di carburante, gli uomini dell’Arcturus avevano potuto visitare a una a una tutte le quindici lune di Saturno, e ne avevano circumnavigato persino il grande anello. E così, in pochi mesi, si erano raccolte molte più notizie su quel lontano pianeta di quante se ne fossero apprese in tanti secoli di osservazioni coi telescopi.
Purtroppo si era dovuto pagare un duro prezzo. Due uomini dell’equipaggio erano morti in seguito a contaminazione da radiazioni dopo una riparazione d’emergenza a un motore. Erano stati sepolti su Dione, la quarta luna. Il capo della spedizione, capitano Envers, era stato ucciso su Titano da una valanga di aria gelata. Il suo cadavere non era più stato ritrovato. Allora Hilton aveva assunto il comando, e un anno dopo era riuscito a riportare su Marte, intatta, l’Arcturus con l’equipaggio superstite.
Gibson conosceva già i fatti. Ricordava ancora i radiomessaggi che avevano attraversato lo spazio, ritrasmessi da un mondo all’altro. Ma adesso era completamente diverso ascoltare il racconto di quell’avventura dalla viva voce di Hilton che narrava col suo tono calmo, quasi impersonale, come se, anziché protagonista, fosse stato semplice spettatore.
Parlò di Titano e dei suoi fratelli minori, le piccole lune che circondano Saturno facendo di questo pianeta quasi un modello su piccola scala del Sistema Solare. Raccontò come erano finalmente atterrati sulla luna più interna, Mimas, che dista da Saturno solo metà di quanto la Luna disti dalla Terra.
«Scendemmo in una valle ampia, chiusa tra due montagne, dove eravamo convinti che il terreno fosse più che solido. Non volevamo ripetere l’errore commesso su Rea. Fu un atterraggio perfetto, e per uscire all’esterno ci infilammo nelle apposite tute. È strano come si è sempre impazienti di sbarcare, per quante volte si possa aver messo piede su un mondo nuovo.
«Mimas ha una bassa gravità, solo un centesimo di quella terrestre, ma sufficiente per evitarci di finire nello spazio. Quella di avanzare a balzi era un’esperienza che mi divertiva. Per quanto lungo e alto che fosse il balzo, si poteva stare sicuri che presto o tardi si finiva col ridiscendere, purché si avesse la pazienza di aspettare.
«Quando sbarcammo era mattino presto. Mimas ha le giornate un poco più brevi di quelle terrestri: compie il giro di Saturno in ventidue ore e mezzo. Come la Luna, Mimas ha il periodo di rivoluzione lungo quanto quello di rotazione, quindi offre al suo pianeta sempre la stessa faccia, o meglio, dal pianeta è possibile vederne sempre soltanto una faccia. Eravamo discesi nell’emisfero settentrionale, non lontano dall’equatore, e Saturno si trovava già molto sopra l’orizzonte. Aveva un aspetto veramente bizzarro, inquietante, una specie di montagna dalla curvatura assurda e alta migliaia di chilometri.
«Avrete certo visto i film che abbiamo girato, specialmente quello a colori che mostra, accelerato, un ciclo completo delle fasi di Saturno. Ma non credo che i film possano rendere perfettamente quello che significa vivere con quella sfera enorme sempre sospesa lassù nel cielo. È talmente grande che non si riesce a vederla tutta in una volta. Se ci si metteva di fronte e si allargavano le braccia si aveva l’impressione di poter toccare con la punta delle dita le estremità opposte degli anelli. Gli anelli veri e propri non si possono distinguere molto bene perché sono sottilissimi, data la loro posizione quasi verticale, ma è possibile individuarne la posizione dalla grande fascia d’ombra che gettano costantemente sul pianeta.