«Voi comunque avete fatto una scoperta forse più importante» si affrettò a dire Hadfield. «Baines però non si interessa di animali, perciò è inutile parlargli dei vostri amici marziani.»

Intanto si erano avviati tra basse pareti grezze che dividevano la cupola in stanze e corridoi. Tutto aveva l’aria di essere stato costruito in gran fretta. Passarono accanto a complesse apparecchiature scientifiche posate su casse d’imballaggio. Ovunque si respirava un’aria di febbrile improvvisazione, ma, fatto strano, c’era pochissima gente al lavoro. Gibson ebbe la sensazione che, di qualunque cosa si fosse trattato, il lavoro svolto sotto quella cupola fosse ormai concluso, e che di tutto il personale non fossero rimasti che gli elementi indispensabili.

Baines li accompagnò al compartimento stagno che portava a un’altra cupola, e mentre aspettavano che l’ultima porta si aprisse, disse con la sua voce pacata: «Può darsi che adesso gli occhi vi facciano un po’ male.» Dopo queste parole, Gibson alzò una mano a fare da schermo.

La prima impressione che ricevette fu di luce accecante e di calore insopportabile. Fu come se, con un solo passo, fosse andato dal Polo ai Tropici. Dall’alto, potenti fari inondavano di luce la stanza semisferica. L’atmosfera era pesante, opprimente, e non a causa soltanto del caldo. Gibson si chiese che razza di aria stesse respirando.

La cupola non era suddivisa in locali ma era tutta un grande spazio circolare occupato da aiuole ordinate nelle quali crescevano tutte le piante marziane che Gibson aveva visto sino a quel momento, e parecchie altre. Circa un quarto della superficie del locale era ricoperto di alte foglie brune che Gibson riconobbe immediatamente.

«Dunque le conoscevate già?» disse, né sorpreso né particolarmente deluso. (Hadfield aveva ragione: i Marziani erano assai più importanti.)

«Sì» disse Hadfield. «Furono scoperte circa due anni fa e crescono abbondanti lungo la fascia equatoriale. Si sviluppano soltanto dove c’è molto sole, e la piccola foresta di Porto Schiaparelli è la più settentrionale che sia stata scoperta sinora.»

«Ci vuole parecchia energia per estrarre ossigeno dalla sabbia» spiegò Baines. «Noi le abbiamo aiutate con tutte queste luci, e abbiamo tentato alcuni esperimenti. Venite un po’ a vedere i risultati.»

Gibson si avvicinò all’aiuola stando bene attento a mantenere i piedi sul sentiero. Quelle piante non erano esattamente uguali a quelle scoperte da lui, per quanto fosse evidente che discendevano dal medesimo ceppo. La diversità più appariscente era data dalla scomparsa dei baccelli pieni di gas, sostituiti da miriadi di pori minutissimi.

«Questo è il punto più importante» spiegò Hadfield. «Siamo riusciti a ottenere una varietà di piante che libera l’ossigeno direttamente nell’aria dato che non ha più necessità di immagazzinarlo. Sino a quando ci saranno luce e calore sufficienti, la pianta riuscirà a estrarre tutto il suo fabbisogno di ossigeno dalla sabbia ed espellerà quindi il superfluo. Tutto l’ossigeno che state respirando in questo momento proviene da queste piante: non ne esiste altra fonte, sotto questa cupola.»

«Capisco» disse Gibson. «Avevate già avuto la mia idea, non solo ma siete anche andati parecchio avanti. Però non riesco ancora a capire il perché di tanto mistero.»

«Quale mistero?» disse Hadfield in tono d’innocenza offesa.

«Ma se mi avete appena chiesto di non dire niente» protestò Gibson.

«Ve l’ho chiesto soltanto perché tra pochi giorni verrà fatta una dichiarazione ufficiale, e non volevamo che se ne parlasse in maniera vaga e imprecisa. Ma in realtà non c’è nessun mistero.»

Gibson seguitò a rimuginare queste parole durante il ritorno a Porto Lowell. Hadfield gli aveva detto parecchio, ma gli aveva detto tutto? E se… se anche Phobos avesse fatto parte del quadro? Gibson si chiese se i suoi sospetti sulla luna interna fossero per caso infondati. Poteva anche darsi che Phobos non aves se alcun rapporto con quel progetto particolare. Gli venne la tentazione di mettere in imbarazzo Hadfield con una domanda diretta, ma poi rinunciò. Probabilmente se avesse tentato quel trucco, avrebbe fatto una pessima figura.

Le cupole di Porto Lowell comparivano già al limite dell’orizzonte bizzarramente convesso, quando Gibson affrontò l’argomento che lo tormentava da quindici giorni.

«L’Ares torna sulla Terra fra tre settimane, vero?» disse. Hadfield si limitò ad annuire con un cenno della testa. La domanda era del tutto retorica perché Gibson sapeva la risposta meglio di chiunque altro.

«Stavo pensando» riprese Gibson lentamente, «che mi piacerebbe trattenermi ancora un po’ su Marte. Magari fino all’anno venturo.»

«Oh!» fece Hadfield. L’esclamazione non rivelò né compiacimento né disapprovazione, e Gibson provò una certa delusione per la freddezza con cui era stato accolto il suo annuncio. «E il vostro lavoro?» chiese il Presidente, dopo una breve pausa.

«Il mio è un lavoro che si può fare indifferentemente tanto qui quanto sulla Terra.»

«Vi renderete conto» disse Hadfield «che se avete intenzione di restare dovrete trovarvi un’occupazione utile.» Sorrise un po’ a disagio. «Temo di essere stato proprio brutale. Intendevo dire che dovrete fare qualcosa per aiutare a tirare avanti la colonia. Avete qualche progetto particolare in questo senso?»

Le ultime parole furono un po’ più incoraggianti: per lo meno significava che Hadfield non respingeva categoricamente la sua richiesta. C’era però un dettaglio che Gibson, nel suo entusiasmo, aveva trascurato.

«Veramente io non pensavo di stabilirmi qui definitivamente» disse, un po’ confuso. «Io… ecco, desidero passare un certo tempo nello studio dei Marziani, e mi piacerebbe riuscire a scoprirne altri. Inoltre mi dispiace abbandonare Marte proprio nel momento in cui le cose quassù si stanno facendo interessanti.»

«Come sarebbe a dire?» chiese Hadfield.

«Ecco… tutte queste piante all’ossigeno, tanto per fare un esempio, e la messa in opera della Cupola Sette. Sono curioso di vedere quello che succederà nei prossimi mesi.»

Hadfield lo guardò pensoso. Era meno sorpreso di quanto Gibson si sarebbe immaginato. Aveva assistito altre volte ad analoghi mutamenti di posizione. Anzi, si era chiesto spesso se anche Gibson avrebbe subito quella trasformazione, e adesso non era affatto dispiaciuto della piega che avevano preso gli avvenimenti.

La spiegazione era in realtà molto semplice. Gibson si sentiva ora molto più felice di quanto non lo fosse mai stato sulla Terra, perché aveva fatto qualcosa di utile, di necessario per la comunità marziana. L’identificazione era ormai quasi completa, e il fatto che Marte avesse già compiuto un attentato contro la sua vita era servito soltanto a rafforzare la sua decisione di restare. Se fosse tornato sulla Terra non gli sarebbe sembrato di rientrare in patria, ma di andare verso un luogo d’esilio.

«L’entusiasmo non basta» disse Hadfield.

«Questo lo capisco bene.»

«Il nostro piccolo mondo è basato su due fattori essenziali: le capacità specifiche e il lavoro vero e proprio. Senza questi due elementi dovremmo far fagotto e tornare sulla Terra.»

«Io non ho paura di lavorare, e sono sicuro che potrei impratichirmi presto di qualcuno dei numerosi lavori amministrativi che svolgete qui, e delle nozioni tecniche necessarie.»

Hadfield pensò che questo probabilmente era vero. La capacità di sbrigare incombenze del genere era solo questione di intelligenza, e d’intelligenza Gibson ne aveva da vendere. Ma l’intelligenza da sola non bastava su Marte. Ci volevano anche diverse altre qualità personali. Non conveniva creare in Gibson false speranze finché non fosse stato possibile vagliare più a fondo il problema discutendone anche con Whittaker.

«Vi dirò io come dovete fare» disse Hadfield. «Intanto fate una richiesta di soggiorno provvisorio, che io segnalerò alla Terra. La risposta la riceveremo tra una settimana circa. Naturalmente se vi risponderanno di no, noi non potremo fare niente.»


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