La solitudine, la certezza dell’isolamento, che egli aveva sperimentato nella sua prima ora a bordo della nave spaziale, si gonfiarono ora in lui e si affermarono come la sua vera condizione: ignorata, rimossa, ma assoluta.
Egli era solo, su Urras, poiché veniva da una società che si era messa volontariamente in esilio. E sul proprio mondo era sempre stato solo perché si era esiliato dalla propria società. I Coloni avevano fatto un passo in avanti. Egli ne aveva fatti due. E faceva parte a sé, era solo, poiché aveva affrontato il rischio metafisico.
Ed era stato talmente sciocco da pensare di poter riunire due mondi ai quali non apparteneva.
Il blu del cielo notturno, dietro la finestra, richiamò i suoi occhi. Al di sopra della vaga oscurità delle fronde e della torre della cappella, al di sopra del vago profilo delle montagne, che sempre, di notte, parevano più piccole e remote, una luce si stava allargando: un’ampia, morbida radianza. Si alza la Luna, pensò, con un grato senso di familiarità. Non c’è frattura nell’integrità del tempo. Egli aveva visto sorgere la Luna da bimbo, dalle finestre del domicilio di Ampio Piano, insieme con Palat; l’aveva vista alzarsi sulle colline della sua adolescenza; sulle aride piane della Polvere; sui tetti di Abbenay, con Takver che la osservava accanto a lui.
Ma non questa Luna.
Le ombre si spostavano accanto a lui, ed egli rimase a sedere senza muoversi, mentre Anarres si innalzava al di sopra delle montagne straniere; Anarres piena, bigia maculata e bianco-azzurrina, splendente. La luce del suo mondo gli riempì le mani vuote.
CAPITOLO 4
La luce del tramonto, battendogli sul viso, destò Shevek quando il dirigibile, superato l’ultimo passo dei Ne Theras, voltò verso sud. Aveva dormito per la maggior parte della giornata: la terza del lungo viaggio. La sera della festa d’addio era mezzo mondo alle sue spalle. Egli sbadigliò e si stropicciò gli occhi e scosse il capo, cercando di allontanare dalle proprie orecchie il profondo ronzio dei motori del dirigibile; infine si destò del tutto, e comprese che il viaggio era quasi terminato, che dovevano ormai essere vicini ad Abbenay. Accostò il viso al finestrino polveroso, ed effettivamente, in basso sotto di loro, tra due rugginose creste montane c’era un grande campo chiuso da un muro: il Porto. Lo scrutò con impazienza, cercando di scorgere se ci fosse una nave sulla pista d’atterraggio. Per spregevole che fosse, Urras era pur sempre un altro mondo; egli desiderava vedere una nave di un altro mondo, un viaggiatore che avesse attraversato l’abisso asciutto e terribile, una cosa costruita da mani straniere. Ma non c’erano navi nel Porto.
I mercantili di Urras giungevano soltanto otto volte l’anno, e si fermavano esattamente quel tanto che bastava per le operazioni di carico e di scarico. Non erano visitatori graditi. Anzi, per qualche anarresiano le navi erano un’umiliazione che si rinnovava ogni volta.
Le navi portavano petrolio e derivati petroliferi, certe delicate parti meccaniche e certe piccole componenti elettroniche che le industrie anarresiane non erano attrezzate a produrre, e spesso anche una nuova specie di alberi da frutto o di cereali da provare. Riportavano a Urras un pieno carico di mercurio, rame, alluminio, uranio, stagno, e oro. E per gli urrasiani era un ottimo affare. La divisione di questi carichi, otto volte l’anno, era la funzione più prestigiosa dell’urrasiano Concilio dei Governi Mondiali e il massimo avvenimento della borsa mondiale di Urras. Di fatto, il Libero Mondo di Anarres era una colonia mineraria di Urras.
La cosa irritava. Ogni generazione, ogni anno, nei dibattiti del CDP ad Abbenay, fiere proteste si alzavano: «Perché continuiamo queste transazioni d’affari da profittatori con i proprietaristi guerrafondai?». E teste meno calde fornivano la risposta, sempre uguale: «Per gli urrasiani sarebbe più costoso venire di persona a scavare i minerali loro occorrenti; per questo non ci invadono. Ma se noi rompessimo i trattati commerciali, gli urrasiani userebbero la forza.» È assai difficile, tuttavia, per persone che non hanno mai pagato denaro per qualcosa, capire la psicologia del costo, l’argomento del prezzo di mercato. Sette generazioni di pace non avevano portato la fiducia.
Pertanto l’incarico di lavoro chiamato Difesa non aveva mai bisogno di sollecitare volontari. La maggior parte del lavoro della Difesa era talmente noioso che non veniva neppure chiamato «lavoro» in pravico, lingua che usava la stessa parola per «lavoro» e per «gioco», ma kleggich, sfacchinata, compito ingrato. Gli addetti alla Difesa equipaggiavano le dodici navi interplanetarie, le riparavano e le tenevano in orbita come rete di guardia; prestavano servizio presso stazioni radar e radiotelescopiche collocate in luoghi isolati; svolgevano lavori noiosi al Porto. E tuttavia c’era sempre una lunga lista di candidati. Per quanto fosse pragmatica la moralità che un giovane anarresiano assorbiva dall’ambiente, egli traboccava ugualmente di vita, e questa vita gli chiedeva altruismo, sacrificio della propria persona, spazio per il gesto assoluto. Solitudine, stato di allarme, pericolo, astronavi; tutte queste cose avevano l’attrattiva del romanzesco. E fu questo gusto del romanzesco a indurre Shevek a schiacciare il naso contro il finestrino finché il Porto vuoto non si fu allontanato alle spalle del dirigibile, e a lasciarlo in preda al disappunto poiché non aveva potuto vedere sulla piattaforma una delle intoccabili navi minerarie.
Sbadigliò nuovamente, si stiracchiò, e poi guardò fuori, in direzione della prua del dirigibile, per vedere se ci fosse qualcosa da vedere. Il dirigibile passava accanto all’ultima bassa cresta dei Ne Theras. Davanti ad esso, a partire dai bracci della catena montana, allargandosi verso sud, brillante sotto il sole del pomeriggio, giaceva in leggera discesa una grande baia verdeggiante.
La fissò con meraviglia, come l’avevano già fissata, seimila anni prima, i suoi antenati.
Nel Terzo Millenio di Urras i sacerdoti astronomi di Serdonou e Dhun avevano osservato le stagioni cambiare la lucentezza marrone dell’Altro Mondo, e avevano dato mistici nomi alle pianure e alle catene montuose, e ai mari che riflettevano il sole. La regione che rinverdiva prima di ogni altra nel nuovo anno lunare era stata da loro chiamata Ans Hos, il Giardino della Mente: l’Eden di Anarres.
Nei millenni successivi i telescopi avevano dimostrato che gli antichi sacerdoti non s’erano sbagliati. Ans Hos era davvero il punto più favorevole di Anarres; e il primo veicolo spaziale con un uomo a bordo che scese sulla Luna, scelse proprio quel punto per scendere, quell’area verde tra le montagne e il mare.
Ma l’Eden di Anarres risultò essere asciutto, freddo e ventoso, e il resto del pianeta risultò essere ancora peggio. La vita sul pianeta si era evoluta soltanto fino ai pesci e alle piante senza fiori. L’aria era sottile, come quella di Urras a un’elevata altitudine. Il sole bruciava, il vento raggelava, la polvere era soffocante.
Per duecento anni, dopo quella prima discesa, Anarres venne esplorato, cartografato, studiato, ma non colonizzato. Perché trasferirsi in un deserto terribile quando c’era abbondanza di spazio nelle dolci vallate di Urras?
Tuttavia, venne scavato. Le epoche del Nono e dell’inizio del Decimo Millennio, saccheggiatrici di se stesse, avevano svuotato le riserve minerarie di Urras; con il perfezionamento dell’astronautica, divenne più economico scavare la Luna che estrarre da minerali poveri o dall’acqua del mare i metalli occorrenti.
Nell’anno urrasiano IX-738 venne fondata una colonia ai piedi dei Monti Ne Theras, sede di una miniera di mercurio, nell’antica zona di Ans Hos. Il punto venne chiamato Città Anarres. Non era però una città: non c’erano donne. Gli uomini firmavano un contratto per due o tre anni come minatori o come tecnici, poi tornavano a casa, sul mondo reale.