La Luna e le sue miniere erano sotto la giurisdizione del Consiglio dei Governi Mondiali, ma nell’altra parte della Luna, nell’emisfero orientale, la nazione di Thu aveva un piccolo segreto: una base di astronavi e una colonia di minatori, con moglie e figli. Essi abitavano veramente sulla Luna, e la cosa era nota esclusivamente al loro governo. Fu il crollo di quel governo nell’anno 771 a far nascere la proposta, nel Consiglio dei Governi Mondiali, di dare la Luna alla Società Internazionale degli Odoniani: di comprarli con un mondo, prima che minassero fatalmente l’autorità della legge e la sovranità nazionale su Urras. Città Anarres venne evacuata, e dal bel mezzo della confusione che regnava in Thu partì in fretta un’ultima coppia di razzi che dovevano raccogliere i minatori. Ma non tutti i minatori decisero di ritornare. Ad alcuni di loro piaceva il deserto terribile.

Per più di vent’anni le dodici astronavi assegnate ai coloni Odoniani dal Consiglio dei Governi Mondiali fecero la spola tra i mondi, finché il milione di anime che avevano scelto la nuova vita non fu completamente trasportato al di là dell’abisso asciutto. Poi il porto venne chiuso all’immigrazione e aperto solamente ai mercantili dell’Accordo Commerciale. A quell’epoca Città Anarres accoglieva già centomila persone, ed era stata ribattezza Abbenay, che significava, nella nuova lingua della nuova società, «La Mente».

Il decentramento era stato un elemento essenziale nei progetti di Odo per la società ch’ella non poté mai vedere. Ella non aveva avuto intenzione di de-urbanizzare la civiltà. Anche se aveva suggerito che il limite naturale delle dimensioni di una comunità stava nella dipendenza dalla regione immediatamente circostante per ottenere il cibo e l’energia che le erano indispensabili, ella pensava che tutte le comunità dovevano essere collegate da reti di comunicazione e di trasporto, in modo che le merci e le idee potessero accorrere dove erano richieste, l’amministrazione potesse operare con semplicità e velocità, e tutte le comunità potessero giovarsi degli scambi reciproci. Ma la rete non doveva essere diretta dall’alto. Non ci doveva essere nessun centro di controllo, nessuna capitale, nessuna sede in cui potesse instaurarsi il meccanismo autoriproducentesi della burocrazia e potesse stabilirsi l’impulso di dominio di individui che cercassero di diventare capitani, comandanti, capi di stato.

I piani di Odo, tuttavia, si erano basati sulla terra generosa di Urras. Sull’arida Anarres le comunità dovettero distribuirsi a larghi intervalli per trovare le risorse naturali, e poche di esse poterono risultare autosufficienti, indipendentemente dal limite a cui facessero retrocedere il loro concetto di ciò che è sufficiente al sostentamento. Lo ridussero in modo davvero drastico, ma raggiunsero un limite al di sotto del quale non erano disposte ad andare: non volevano regredire al tribalismo pre-urbano, pre-tecnologico. I Coloni sapevano che la loro anarchia era il prodotto di una civiltà molto alta, di una cultura complessa e differenziata, di un’economia stabile e di una tecnologia altamente industrializzata che potevano mantenere un’alta produzione e un rapido trasporto delle merci. Per quanto vaste fossero le distanze fra di loro, gli insediamenti si attennero agli ideali dell’organicismo complesso. Costruirono per prime le strade, per seconde le case. Le risorse e le produzioni di ogni particolare regione venivano scambiate continuamente con quelle di altre regioni, con un processo complicato di equilibri: l’equilibrio di differenze che è caratteristico della vita, dell’ecologia naturale e sociale.

Ma come si diceva nel modello analogico, non si può avere un sistema nervoso senza avere almeno un ganglio, e preferibilmente un cervello. Occorreva che ci fosse un centro. I computer che coordinavano l’amministrazione, la divisione del lavoro, la distribuzione delle merci e le federative centrali dei principali gruppi di lavoro, furono in Abbenay, fin dall’inizio. E fin dall’inizio i Coloni furono consapevoli del fatto che quell’inevitabile centralizzazione costituiva una minaccia costante, che andava rintuzzata mediante una costante vigilanza.

O bimba Anarchia, infinita promessa

Infinita attenzione.

Io ascolto, ascolto nella notte

Accanto alla cuna profonda mentre la notte

È gentile con la bimba.

Pio Atean, che prese il nome pravico Tober, scrisse questi versi nel quattordicesimo anno dell’Insediamento. I primi tentativi degli Odoniani per trasformare il loro nuovo linguaggio, il loro nuovo mondo, in poesia, furono rigidi, sgraziati, commoventi.

Abbenay, mente e centro di Anarres, era adesso davanti al dirigibile, nell’ampia pianura verde.

Il verde brillante e profondo dei campi era inconfondibile: un colore che non era quello nativo di Anarres. Solo qui e sulle tiepide coste del Mare Kerano attecchivano i cereali del Vecchio Pianeta. In ogni altro punto, la produzione principale di cereali era costituita di holum di terra e di mene erbacea.

Quando Shevek aveva nove anni, il suo lavoro scolastico pomeridiano, per vari mesi, era stato quello di accudire alle piante ornamentali della comunità di Piano Alto: piante delicate, esotiche, che dovevano venire nutrite e poste al sole come neonati. Egli aveva aiutato un vecchio in quel lavoro tranquillo ed esigente, e aveva amato il vecchio e aveva amato le piante, la terra, il lavoro. Quando vide il colore della Piana di Abbenay ricordò il vecchio, e l’odore del letame dei pesci da olio, e il colore dei butti sui sottili rami nudi, il verde chiaro e vigoroso.

Egli scorse nella distanza, tra i campi vividi, una lunga chiazza di bianco, che si risolse in cubi, come sale versato, quando il dirigibile la sorvolò.

Un ammasso di lampi accecanti al bordo orientale della città lo costrinse a strizzare le palpebre e per un istante gli fece vedere delle macchie scure: i grandi specchi parabolici che fornivano calore solare alle raffinerie di Abbenay.

Il dirigibile prese terra a una stazione per le merci al confine meridionale della città, e Shevek pose piede nelle strade della più grande città del mondo.

Erano strade ampie e pulite. Non avevano ombre, poiché Abbenay giaceva a poco meno di trenta gradi a nord dell’Equatore, e tutti gli edifici erano bassi, ad eccezione delle torri, robuste e sottili, delle turbine a vento. Il sole bianco splendeva nel cielo duro, scuro, azzurro cupo. L’aria era chiara e pulita, priva di fumo e di umidità. Le cose erano vivide, rigide nei bordi e negli angoli, nette. Ogni cosa si stagliava separatamente, risaltava in se stessa.

Gli elementi che componevano Abbenay erano uguali a quelli di ogni altra comunità Odoniana, ripetuti varie volte: botteghe, fabbriche, domicili, dormitori, centri d’apprendimento, sale di riunione, distributori, stazioni, refettori. Quasi sempre, gli edifici più grandi erano raggruppati intorno a spazi aperti, dando alla città una struttura cellulare: una sotto-comunità o quartiere dopo l’altro. Le industrie pesanti e gli impianti per le lavorazioni alimentari tendevano a raggrupparsi alla periferia della città, e il modulo cellulare veniva ripetuto, nel senso che le industrie facenti parte di uno stesso ciclo di lavorazioni quasi sempre sorgevano a fianco a fianco lungo una determinata strada o piazza. Il primo di questi raggruppamenti attraversato da Shevek era una serie di piazze, il distretto tessile, pieno di impianti per la lavorazione della fibra di holum, di laboratori per la filatura e la tessitura, tintorie e distributori di tessuto e di abiti; nel centro di ciascuna piazza era infissa una piccola foresta di aste piene da cima a fondo di bandiere e pennoni di tutti i colori prodotti dai tintori, che così affermavano con orgoglio le capacità locali. In maggior parte, gli edifici della città erano simili tra loro: disadorni, costruiti solidamente in pietra o in pomice artificiale. Alcuni edifici parevano enormi agli occhi di Shevek, ma quasi tutti avevano un piano solo, a causa della frequenza dei terremoti. Per la stessa ragione le finestre erano piccole, di una dura plastica al silicone che non si infrangeva. Erano piccole, ma assai numerose, poiché non veniva fornita illuminazione artificiale da un’ora prima dell’alba a un’ora dopo il tramonto. Non veniva fornito riscaldamento quando la temperatura esterna superava i 18 gradi. E questo non perché Abbenay fosse priva di energia elettrica — non lo era affatto, grazie alle turbine a vento e ai generatori basati sulla differenza di temperatura tra la superficie e l’interno della terra, usati per il riscaldamento — ma perché il principio dell’economia organica, così essenziale per il funzionamento della società, non poteva fare a meno di ripercuotersi profondamente sulla sua etica ed estetica. «L’eccesso è escremento» aveva scritto Odo nella Analogia. «L’escremento ritenuto entro il corpo è veleno».


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