Trovò la Stanza 46 in un lungo corridoio di porte chiuse nel domicilio. Evidentemente si trattava di stanze singole, e non di camerate, ed egli si chiese perché l’archivista l’avesse spedito lì. Da quando aveva due anni era sempre stato in dormitori, stanze contenenti da quattro a dieci letti. Bussò alla porta del 46. Silenzio. Aprì il battente. La stanza era una singola, piccola, vuota, scarsamente illuminata dalla luce proveniente dal corridoio. Accese la lampada. Due sedie, una scrivania, un regolo calcolatore usato, alcuni libri, e, ben piegata sul palchetto del letto, una coperta di colore arancione, tessuta a mano. Qualcun altro viveva già lì, l’archivista aveva commesso un errore. Chiuse la porta. L’aprì di nuovo per andare a spegnere la lampada. Sulla scrivania, sotto la lampada, c’era un messaggio, scribacchiato su un pezzetto di carta: «Shevek, ufficio fisica, mattino, 2-4-1-154. Sabul».

Appoggiò il soprabito su una sedia, gli stivali sul pavimento. Rimase in piedi ancora per vario tempo, e lesse i titoli dei libri: normali testi di fisica e di matematica, rilegati in verde, con il Cerchio della Vita stampigliato sulla copertina. Poi appese il soprabito nell’armadio e ritirò gli stivali. Tirò attentamente la tendina dell’armadio. Attraversò la stanza da lì alla porta: quattro passi. Rimase esitante ancora un attimo, e poi, per la prima volta nella sua vita, chiuse la porta della propria stanza.

Sabul era una persona di quarant’anni, di bassa statura, robusto, trasandato. La sua peluria facciale era più scura e più fitta del normale, e sul mento si iscuriva fino a formare una regolare barbetta. Portava una pesante sovratunica invernale, e dall’aspetto della sovratunica doveva averla addosso dall’inverno precedente: gli orli delle maniche erano neri di sudiciume. Aveva modi bruschi e rancorosi. Parlava a pezzi e bocconi, così come scribacchiava gli appunti su pezzetti di carta. Borbottava. — Devi imparare lo iotico — borbottò a Shevek.

— Imparare lo iotico?

— Ho detto imparare lo iotico.

— E perché?

— Per leggere la fisica urrasiana! Atro, To, Baisk, questa gente. Nessuno li ha tradotti in pravico, nessuno li tradurrà mai. Sei persone, al massimo, su Anarres, sono capaci di capirli. In qualsiasi lingua.

— E come posso imparare lo iotico?

— Grammatica e dizionario!

Shevek non si arrese. — E dove li pesco?

— Qui — brontolò Sabul. Frugò in mezzo agli scaffali polverosi, pieni di piccoli libri dalla copertina verde. Aveva movimenti bruschi e nervosi. Trovò due volumi spessi e non rilegati su uno scaffale basso e li sbatté sullo scrittoio. — Dimmi quando sarai capace di leggere Atro in iotico. Di te non posso far nulla prima di allora.

— Che tipo di matematica usano gli urrasiani?

— Nessuna che non possa usare tu.

— C’è qualcuno, qui, che lavora sulla cronotopologia?

— Sì, Turet. Puoi consultarlo. Non hai bisogno di seguire il suo corso.

— Preventivavo di assistere alle lezioni di Garab.

— E perché?

— Il suo lavoro sulla frequenza e il ciclo…

Sabul si sedette e poi si rialzò. Il modo con cui si muoveva era insopportabile: non stava mai fermo, eppure era sempre tutto rigido, una raspa d’uomo. — Non sprecar tempo. Sei già molto più avanti di quella donna nella teoria della Sequenza, e le altre idee che tira fuori non valgono nulla.

— Mi interessano i princìpi della Simultaneità.

— La Simultaneità! Ma che razza di roba da profittatori vi rifila Mitis, laggiù tra i monti? — Il fisico aveva gli occhi di brace; sotto i capelli grossi e corti, le vene delle tempie si gonfiavano.

— Io stesso ne ho organizzato un corso come suo assistente.

— Cerca di crescere. Cerca di crescere. È l’ora di maturare. Adesso sei qui. Noi lavoriamo sulla fisica, non sulla religione. Butta via il misticismo, e cresci. Quanto impiegherai a imparare lo iotico?

— Mi sono occorsi alcuni anni per imparare il pravico — disse Shevek. Piccola ironia che non venne assolutamente recepita da Sabul.

— Io l’ho imparato in dieci decadi. Abbastanza per leggere l’Introduzione di To. Oh, al diavolo, ti serve un testo per lavorare. Potresti prendere quello. Ecco. Aspetta. — Cercò in un cassetto colmo a scoppiare, e infine ottenne un libro: un libro dall’aspetto curioso, rilegato in azzurro, senza Cerchio della Vita in copertina. Il titolo era stampigliato in lettere dorate e pareva dire Poilea Afio-ite, parole che non significavano nulla per Shevek; le forme di alcune delle lettere gli erano poco familiari. Shevek lo fissò, lo prese dalle mani di Sabul, ma non lo aprì. Finalmente la stringeva in mano, la cosa che aveva desiderato vedere, l’oggetto costruito dagli stranieri, il messaggio venuto da un altro pianeta.

Ricordò il libro che Palat gli aveva mostrato, il libro di tutti numeri.

— Ritorna quando sarai capace di leggerlo — brontolò Sabul.

Shevek si volse per allontanarsi. Sabul alzò di tono il suo brontolio: — Tieni con te quei libri! Non sono per il pubblico consumo.

L’uomo più giovane si arrestò, si volse indietro, e disse dopo un momento, con la sua voce pacata e un po’ diffidente: — Non comprendo.

— Non farli leggere a nessun altro!

Shevek non gli diede risposta.

Sabul si alzò di nuovo in piedi e gli si avvicinò: — Ascolta. Ora sei membro dell’Istituto Centrale delle Scienze; sei un addetto di Fisica, al lavoro con me, Sabul. Hai seguito il filo? Privilegio equivale a responsabilità. Corretto?

— Sto per acquisire conoscenze che non dovrò condividere — disse Shevek, dopo una breve pausa, scandendo la frase come se fosse stata una proposizione di logica.

— Se trovi un pacchetto di detonatori esplosivi per la strada, ti metti a «condividerli» con tutti i ragazzini che passano? Questi libri sono esplosivo. Ora capisci?

— Sì.

— Benissimo. — Sabul si voltò, accigliato a causa di quella che pareva una collera endemica, non specifica. Shevek uscì dalla stanza, portando con attenzione la dinamite con sé, con un misto di ribrezzo e di bruciante curiosità.

Si mise all’opera per imparare lo iotico. Lavorava da solo, nella Stanza 46, sia per l’avvertimento di Sabul, sia perché gli veniva molto naturale il lavorare da solo.

Fin da quando era molto giovane si era accorto di essere, in certi aspetti, assai diverso da tutte le altre persone a lui note. Per un bambino la consapevolezza di queste differenze è assai dolorosa, in quanto, non avendo ancora compiuto nulla ed essendo incapace di compiere alcunché, il bambino non può giustificarla. La presenza di adulti affezionati e sui quali si possa fare affidamento, i quali siano anch’essi, a loro modo, diversi, è l’unica rassicurazione che un simile bambino può avere; e Shevek non aveva mai goduto di questa rassicurazione. Suo padre era affezionato, certo, e su di lui si poteva fare affidamento. Qualsiasi cosa Shevek fosse, e qualsiasi cosa facesse, Palat la approvava, sinceramente. Ma Palat non aveva avuto la maledizione della diversità. Egli era uguale agli altri, uguale a tutti quegli altri ai quali la comunità veniva così facilmente. Egli amava Shevek, ma non poteva mostrargli che cosa fosse la libertà: quel riconoscere la solitudine di ciascuna persona, un riconoscimento che è l’unica cosa che trascenda tale solitudine.

Shevek si era dunque abituato a un isolamento interiore, interrotto da tutti i contatti occasionali quotidiani, dagli scambi della vita in comune e dalla compagnia di un ristretto numero di amici. Qui ad Abbenay egli non aveva amici, e poiché non era stato messo nell’abituale situazione del dormitorio, non se n’era fatto nessuno. Egli era troppo consapevole, a vent’anni, delle particolarità della propria mente e del proprio carattere per comportarsi in modo estroverso; si comportava in modo ritirato e altezzoso; e i suoi colleghi studenti, avvertendo che quella superiorità era reale, cercavano raramente di avvicinarsi a lui.


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